La morte di Sinisa Mihajlovic ha commosso molti e, d’altra parte, scatenato una sorta di “gara alla commozione” nel raccontare il “guerriero” che lotta in modo titanico contro il mostro della malattia. Ma un malato non è un eroe e Mihajlovic non fa eccezione.
La premessa è doverosa: la malattia e la morte di ogni essere umano sono una tragedia, sia per l’individuo stesso che per i suoi cari. Ma questa sorta di eroismo contro il grave male che traspare dai nostri media, con un uso di parole e artifici retorici degni di un campo di battaglia, oltre ad avere stufato è profondamento sbagliato.
Era successo per la morte di Nadia Toffa, succede oggi per la morte di Sinisa Mihajlovic, allenatore di calcio ed ex-calciatore serbo, diventato famoso in particolare per le sue punizioni e i suoi tiri potentissimi grazie ai quali ha segnato numerosi gol nonostante giocasse come difensore. Già tre anni fa, quando annunciò la sua malattia e dovette congedarsi per un periodo dalla panchina del Bologna, iniziarono da subito ad apparire sui media narrazioni riferite al “coraggio” con il quale il titano Mihajlovic affronta la “grande ombra”, descrivendo lo sfortunato campione serbo come una sorta di combattente o di eroe classico.
Spiace dirlo, ma un malato non è un eroe. La morte fa parte di ogni essere vivente, incombe sin da quando nasciamo e il fatto di avere contratto un brutto male, per quanto possa dispiacere, non fa di nessun uomo un prode. Eppure la ricerca del consenso, del titolone da prima pagina, del like e della visibilità stanno riempiendo ancora una volta le pagine e i social. In questo momento, invece, la cosa migliore sarebbe quella di essere discreti, rispettare il dolore delle persone che gli erano vicine e, in definitiva, tacere.
E poi c’è altro, dal punto di vista della coerenza e della narrazione resa strumentale all’effetto emotivo del momento. Dirlo ora non è di certo “comodo”, e chi scrive si assume la responsabilità di quello che viene affermato: ma proprio nel caso di Sinisa Mihajlovic non c’è niente di più sbagliato che definirlo un eroe. Era un uomo, certamente coerente ed empatico ma come tutti gli esseri umani fallibile. La storia della sua carriera è costellata da eventi che, al tempo, furono enfatizzati e stigmatizzati come esempi negativi: sputi agli avversari, frasi sessiste, amicizie poco raccomandabili ed espressioni populiste.
Fatti che in un contesto di agonismo e competizione sportiva possono di certo accadere, ma che non possono poi essere cancellati quando è necessario introdurre un nuovo modello narrativo. Da calciatore, nel 2000 insultò il giocatore di colore Patrik Viera apostrofandolo come “n…ro di merda“, nel 2003 fu squalificato per otto giornate per avere sputato in faccia all’avversario Adrian Mutu, durante la finale di Coppa di Jugoslavia disse a un avversario “Prego Dio che i nostri uccidano tutta la tua famiglia a Borovo”; nel 2017, dopo alcuni episodi di antisemitismo negli stadi, affermò serenamente “Non so chi sia Anna Frank“; fu amico di Zeljko Raznatovic (detto la Tigre Arkan), accusato di crimini contro l’umanità durante le guerre jugoslave; si dichiarò un nostalgico del regime di Slobodan Milosevic; definì il criminale di guerra Ratko Mladić “un grande guerriero“; il Codacons presentò un esposto nei suoi riguardi per le frasi sessiste rilasciate durante un post-partita.
Riporto qui l’opinione che Adriano Sofri espresso su di lui nel 2010: “Delle sue opinioni, direte, chi se ne frega: dopotutto deve fare l’allenatore di calcio, non il militante politico. Be’, non esattamente. Lui ha usato e abusato del suo ruolo sportivo per esaltare le sue opinioni, e poiché i suoi idoli erano Arkan e le tigri serbiste e le loro imprese criminali, mi sembra difficile che ideali simili non influiscano sul modo di considerare l’agonismo sportivo e la formazione dei campioni a lui affidati. […] La politica e il calcio si sono mischiate da sempre, e sempre peggio. Quanto a me, sostengo senza riserve la libertà delle idee, politiche e non, di ciascuno. Ma c’è un equivoco. Io parlo del sostegno militante e mai ripudiato (anzi, sempre ribadito) che Mihajlovic ha offerto a crimini e criminali di guerra”.
A cosa serve ricordare tutto questo? F0rse a nulla, se non a ribadire alcuni concetti: ammalarsi e combattere la malattia non è eroico, e chi si salva non è stato più “guerriero” di chi non ce la fa. Probabilmente solo più fortunato. E ancora: mitizzare ed esaltare personaggi pubblici che scompaiono è una pratica purtroppo comune, da sempre, nell’informazione. Oggi, in tempi di click baiting, ancora di più. Ma ricordare chi non c’è più per come era veramente, con tutti i pregi, i difetti, le contraddizioni, gli errori e le peculiarità, è il modo più puro ed onesto per celebrarne la memoria.