Dopo anni si conclude con una condanna definitiva una tragica vicenda che ha portato una mamma sul banco degli imputati.
Per i magistrati della Suprema Corte la morte del figlioletto a soli 11 mesi sarebbe stata causato da una scuotimento troppo energico da parte della madre. Che adesso rischia di finire in cella.
La giustizia italiana ha messo la parola fine su una tragica vicenda avvenuta poco più di 5 anni fa in provincia di Verona. Una vicenda e che ha portato una mamma all’accusa di omicidio preterintenzionale. Accusata di aver provocato, cullandolo troppo violentemente (forse per la stanchezza), la morte del suo bimbo di 11 mesi.
Ieri, martedì 6 dicembre, la Cassazione ha respinto infatti il ricorso della difesa e ha reso definitiva la condanna a 6 anni e 8 mesi della madre del bimbo «morto per scuotimento».
I fatti risalgono al 26 settembre 2017. Quel giorno i genitori del piccolo Nicola, una coppia di veronesi sulla quarantina, avevano chiesto l’intervento urgente di un’ambulanza per soccorrere il bimbo che non respirava più. All’epoca il piccolo aveva un mese soltanto. Per lui e per i genitori sarebbe cominciato un calvario di dieci mesi. Il piccolo è rimasto costantemente attaccato alle macchine per quel periodo interminabile, con papà e mamma al suo fianco per tutto il tempo. I medici del reparto di Rianimazione all’ospedale di Borgo Trento hanno tentato di tutto per salvarlo. Ma non c’è stato niente da fare.
Il processo dopo la tragedia
Il piccolo Nicola si è spento 21 luglio 2018. E dopo la sua morte i genitori sono stati indagati subito per lesioni gravissime, col pm a sollecitare per tutti e due il processo per omicidio preterintenzionale. L’accusa era quella di averlo «scosso con eccessiva energia». Al punto da provocargli danni e traumi tanto gravi da portarlo alla morte dopo 11 mesi di agonia su un lettino in Terapia Intensiva neonatale.
Mamma e papà di Nicola hanno sempre respinto l’accusa di aver voluto fare qualcosa di male al loro bimbo. Il padre del piccolo è stato assolto con formula piena per «non aver commesso il fatto». A quel punto tutte le responsabilità si sono concentrate sulla madre. I giudici di primo e secondo grado l’hanno definita «una brava madre». All’origine della tragedia, probabilmente, la «stanchezza».
Malgrado ciò, la donna ha ricevuto una condanna a 7 anni in primo grado, ridotti a 6 anni e 8 mesi in sede di appello a Venezia. Una condanna confermata ieri dalla Cassazione, che ha reso non più impugnabile la sentenza. Non è servito il tentativo del suo legale, l’avvocato Massimo Ruffo, che fino all’ultimo ha cercato di far riaprire il processo chiedendo ai giudici «l’affidamento di una perizia che accerti il nesso causale tra le lesioni riportate dal piccolo e il decesso». La sua tesi però non ha convinto i magistrati, che hanno confermato la condanna del secondo grado di giudizio.
Adesso la donna rischia così di andare in carcere, almeno in una fase iniziale, per scontare quella che appare davvero una tragedia nella tragedia.