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Estero

Una ong denuncia: “Ecco come Pechino controlla i cittadini cinesi all’estero. Anche in Italia”

Pechino avrebbe installato circa un centinaio di “stazioni di polizia” all’estero per sorvegliare i cittadini cinesi e far rimpatriare i dissidenti.

Lo denuncia in un rapporto on line una ong spagnola. In questo modo le autorità cinesi aggirerebbero i normali canali utilizzati per le estradizioni.

Anche all’estero Pechino non cessa di controllare e tenere sott’occhio i propri cittadini. Un monitoraggio che avviene attraverso un centinaio – se non più – di “stazioni di polizia” sparse in tutto il mondo per sorvegliare la popolazione cinese all’esterno e costringere i dissidenti a rientrare in patria.

Un numero consistente di queste “stazioni” – ben undici – si trova in Italia. È quando emerge da un rapporto del gruppo per i diritti civili di Madrid Safeguard Defenders. Il nuovo aggiornamento identifica 48 “stazioni di polizia” cinesi non ufficiali, che vanno a sommarsi alle altre 54 già individuate nel rapporto dello scorso settembre, dopo il quale erano scattate delle indagini in diversi Paesi occidentali (Olanda, Germania, Canada).

Nel nostro Paese le “stazioni di polizia” cinesi si trovano a Bolzano, Venezia, Firenze, Prato (dove c’è la più grande comunità cinese in Italia) e Roma. Ad attirare l’interesse della Ong spagnola però è soprattutto Milano. Il capoluogo della Lombardia verrebbe usato come “banco di prova” per sorvegliare la popolazione cinese residente fuori dal Paese e costringere i dissidenti a rimpatriare in Cina.

Pechino smentisce la ricostruzione della ong

Il rapporto di Safeguard Defenders – visualizzabile in rete – menziona un’intesa del 2015 stretta col Ministero della Pubblica Sicurezza cinese sui pattugliamenti congiunti. Un accordo che sarebbe “direttamente” all’origine della creazione di stazioni “pilota” a Milano nel 2016, da parte della polizia di Wenzhou, e nel 2018, da parte della polizia di Qingtian.

Da Pechino, già a ottobre scorso, era arrivata la smentita dopo la partenza delle indagini da parte delle autorità olandesi sulle “stazioni di polizia” cinesi ad Amsterdam e Rotterdam. Le autorità cinesi si sono limitate a definire “centri di servizi” per i connazionali all’estero le “stazioni di polizia”. Il loro scopo sarebbe quello di aiutare i cinesi a rinnovare i documenti dopo lo scoppio della pandemia di Covid-19.

Un fenomeno che potrebbe essere più ampio

A quanto pare però la scala del fenomeno – che proietta una luce inquietante sullo “stato di sorveglianza” cinese – sarebbe anche più ampia delle descrizioni presenti nel primo rapporto di Safeguard Defenders. In totale le “stazioni di polizia” cinesi all’estero sarebbero 102. Anche se alcune di queste non sarebbero direttamente gestite dal governo centrale, per Safeguard Defenders “alcune dichiarazioni e politiche cominciano a mostrare una guida più chiara dal governo centrale” e sarebbero impiegate per “attaccare, minacciare, intimidire e costringere gli obiettivi a tornare in Cina per la persecuzione”.

Una parte di questi rientri forzati rientrerebbero nell’operazione “Caccia alla volpe“. Con questa operazione Pechino punta a far rientrare in Cina i funzionari scappati all’estero per sottrarsi alle accuse di corruzione in patria. Le stazioni di polizia si muoverebbero però al di fuori degli abituali canali usati per l’estradizione, stando a quanto riporta Safeguard Defenders, citato dal Guardian. E ci sarebbero anche le prove di intimidazioni patite dai cittadini cinesi in Italia. Tra queste c’è il caso di un operaio accusato di appropriazione indebita. Di lui – rientrato in Cina dopo 13 anni trascorsi in Italia – non si sa più nulla.

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