Da un paio di anni l’economia italiana è regolarmente sottostimata nelle previsioni di crescita. Eppure cresce più della Cina.
Ma questa crescita è dovuta a qualcosa di reale e sostanziale o è solo un effetto ottico?
Quest’anno l’economia italiana crescerà, come aveva previsto a inizio anno l’Fmi, del 3,7 o del 3,8%. Quanto o più della Cina. Il tutto in un momento di guerra in Ucraina, crisi energetica e sull’orlo di una recessione di tutta l’eurozona. Ma le altre previsioni sottostimavano tutte questa crescita dell’economia italiana. Che se non ci fossero state appunto guerra, crisi del gas e recessione, sarebbe probabilmente cresciuta anche di più: forse perfino del 5%.
Com’è possibile? È vera gloria? Se lo è chiesto anche Federico Fubini su Corriere Economia.
L’anno scorso la performance era stata anche migliore: +6,7%, ma si trattava di un rimbalzo post-Covid. Si tratta di capire se c’è della sostanza dietro a questo exploit o si tratta soltanto, scrive Fubini, dell’«effetto irripetibile delle riaperture dopo il biennio di lockdown e proibizioni da Covid».
Inutile dire che la risposta è cruciale per il futuro dell’Italia, dopo il grigiore e la stagnazione dell’ultimo ventennio. Qualche indizio si può avere confrontando le variazioni (tra 2019 e 2022) delle esportazioni di Italia, Spagna, Francia e Germania. Stando ai dati della Commissione europea, l’Italia svetta in testa col +8,8%. Segue la Spagna con un +7,3% e poi, molto più indietro, ci sono Francia (+2,5%) e Germania (+0,9%).
Le imprese industriali italiane sembrano in buona salute. Secondo l’agenzia di rating S&P girano all’80% della loro capacità e hanno libri di ordini pieni per mesi (più di un anno e mezzo). Un effetto dei salari bassi, che in Italia crescono così poco da permettere di recuperare la competitività di costo sui prodotti (ma che rendono però difficile ai lavoratori arrivare a fine mese): in dieci anni, mostra sempre S&P, il ritardo sui tedeschi sul costo del lavoro per unità di prodotto si è dimezzato. C’è poi il fatto che le imprese italiane sono tra le meno indebitate e che il governo le ha indennizzate a debito per tutto il fatturato perduto in pandemia, pagando anche per intero la loro forza lavoro (sempre a debito).
Quest’anno poi lo Stato ha anche parzialmente compensato le imprese (che ricaricavano sulla clientela i rincari in bolletta) per i maggiori costi della crisi del gas. Tanto è vero che negli ultimi tempi i depositi liquidi delle imprese sono aumentati di oltre 100 miliardi di euro. La liquidità non è un problema, anzi, per molte aziende: oltre 420 miliardi di euro, attesa Banca d’Italia. Dopo un decennio, per la prima volta chi vuole investire ha a disposizione anche il credito bancario, coi flussi dei prestiti ripresi in parte, anche in questo caso, grazie alle garanzie statali cominciate con la pandemia.
La performance delle imprese italiane nell’export è poi favorita anche dagli incentivi all’investimento tecnologico di Industria/Transizione 4.0 che le hanno rese più efficienti e forti sul mercato globale. Infine c’è anche il momento favorevole, con la Cina – mercato fondamentale per la Germania – andata in crisi, ma non gli Usa, che per il “made in Italy” sono un mercato molto più importante. Il “superdollaro” ha anzi aiutato il nostro export, oltre che il nostro turismo (tornato ai fasti del 2019) favorito anche da un autunno mite.
Il “mini-boom” italiano per il momento, sostiene Fubini, deriva però in gran parte dalle riaperture post-Covid. L’export e le imprese manifatturiere danno sì segni di grande vitalità. Ma sono ancora una parte troppo piccola dell’economia per poter trainare tutto il resto. Vale a dire le pesanti zavorre di un’amministrazione costosa e inefficiente, il basso livello di ricerca e sviluppo, la dimensione media troppo ridotta delle imprese, l’inadeguatezza della scuola, il debito pubblico monstre, l’inverno demografico. La minaccia di stagnazione è ancora forte. Ma resta la speranza che l’economia italiana possa sfatare le previsioni al ribasso, come successo del resto in questi due anni.
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