Gli europei – francesi in testa – accusano gli americani di speculare sulla guerra in Ucraina indebolendo il tessuto produttivo del Vecchio Continente.
Sono almeno due i “fronti caldi” che dividono le due sponde dell’Atlantico, ecco quali sono.
Si fa presto a dire coesione atlantica: le tensioni tra le due sponde dell’oceano sono in crescita. E come spesso capita, è la Francia a dare corpo ai pensieri degli altri partner europei. I versanti più tesi, tra europei e americani, al momento sono due. Il primo, va da sé, è il nodo del gas; il secondo gli aiuti pubblici per reindustrializzare l’Occidente, soprattutto davanti a una Cina sempre più rampante.
In un caso come nell’altro, l’Amministrazione guidata da Joe Biden non si comporta, di fatto, in maniera molto diversa da quella targata Donald Trump. C’è chi parla infatti di un “sovranismo” bideniano. In altre parole, gli Usa pensano prima di tutto a fare i propri interessi. E solo dopo, semmai, a quelli degli alleati europei.
Gli europei temono dunque che dietro gli appelli alla solidarietà della Nato contro l’invasione russa dell’Ucraina o a quella tra democrazia in chiave anticinese, gli Stati Uniti stiano portando avanti niente alto che la loro agenda geopolitica, se non meri interessi di bottega.
Accuse infondate?
Si tratta di sospetti reali o di accuse infondate? Sul gas le accuse agli americani di speculare sulla guerra in Ucraina sono partite (anche da noi) praticamente fin da subito dopo lo scoppio delle ostilità, il 24 febbraio scorso. L’ultimo a rilanciarle, con particolare enfasi, è stato il presidente francese Emmanuel Macron. «Tra le nazioni che sostengono l’Ucraina – ha detto Macron – il mercato del gas ha creato due categorie: quelli che pagano a caro prezzo e quelli che vendono a caro prezzo. Gli Stati Uniti producono un gas che costa poco ma ce lo vendono a prezzi alti. Questo non è un comportamento da amici».
Stando però a una recente indagine di Politico, l’accusa di Macron sa più di polemica nazionalista che di realtà. In origine infatti il gas Usa – all’atto della vendita da parte dei produttori americani – costa un quarto rispetto al prezzo pagato all’arrivo sul Vecchio Continente. A far lievitare i prezzi sono i costi di intermediazione. Ma la quasi totalità degli intermediari sono europei. In testa la TotalEnergies, società francese guidata da quel Jean-Pierre Sbraire che in pubblico si è vantato dei super profitti portati a casa grazie all’attività di trading col gas proveniente dagli Stati Uniti.
Il pomo della discordia: la politica industriale
C’è poi il nodo della politica industriale. A far storcere il naso agli europei sono due manovre dell’Amministrazione Biden: la prima è il Green New Deal, ribattezzato Inflation Reduction Act. Si tratta di 370 miliardi di aiuti di Stato e agevolazioni fiscali. Lo scopo del Green New Deal è riportare sul suolo americano industrie indispensabili per la transizione sostenibile come quelle delle batterie per le auto elettriche, quelle dei pannelli solari e diverse altre tecnologie green. Tutti campi dove la Cina – grazie a decenni di aiuti pubblici – è egemonica.
La seconda misura indigesta agli europei è il Chips Act: 280 miliardi per la ricerca e l’innovazione, 52 miliardi dei quali riguardano incentivi ai costruttori di fabbriche di semiconduttori sul suolo statunitense. Tutte mosse che sanno di autarchia, con clausole protezionistiche al loro interno. E che hanno prodotto la trasmigrazione in Usa di diverse multinazionali europee attirate dai fondi pubblici a stelle e strisce. Con conseguente danno per il tessuto produttivo del Vecchio Continente.