Una accusa pesante. Pesantissima. Per i Gonzalez, Google e YouTube avrebbero contribuito alla morte della figlia Nohemi, una 23enne americana barbaramente uccisa in un attentato, in un caffè di Parigi, dove studiava.
Secondo la famiglia in questione c’entra il colosso di Mountain View, in quanto avrebbe permesso ad esponenti dell’Isis di pubblicare “centinaia di video che incitano alla violenza e reclutano potenziali sostenitori“. Può sembrare strano, ma la famiglia Gonzalez ha citato in giudizio Google.
Ora è tutto nelle mani della Cassazione, un causa che potrebbe rivoluzionare il sistema giudiziario e soprattutto quella legge scritta più di un quarto di secolo fa, quando Internet sembrava un qualcosa di nettamente diverso da quello che è diventato.
La protezione dei siti web per contenuti pubblicati da terze parti
Quella legge è scritta nella famigerata sezione 230 del Communications Decency Act. Il docente statunitense Jeff Kosseff, studioso di leggi sulla sicurezza informatica, ci ha scritto perfino un libro su questo argomento, definendo quella legge come “le ventisei parole che hanno creato Internet“.
Parole chiare in quel libro, che aprono un mondo di riflessioni. Secondo Jeff Kosseff “nessun fornitore o utente di un servizio informatico interattivo, può essere considerato editore o relatore di qualsiasi informazione, pubblicata da un altro fornitore di contenuti informativi”.
La sezione 230 della legge offre una protezione dei siti web che ospitano contenuti di terze parti online, ma anche qualsiasi piattaforma, da cause civili derivanti da contenuti illegali pubblicati dagli utenti. In pratica è una strategia di “trasferimento del rischio”. Un il rischio legale sarà a carico delle persone che pubblicano i contenuti e non della piattaforma di hosting.
Questa disposizione ha plasmato in modo fondamentale lo sviluppo online, consentendo alle piattaforme online (social e altro) di diventare ciò che sono oggi. Il problema è che la sezione 230 è stata emanata molto prima che le aziende tecnologiche iniziassero a utilizzare i sofisticati algoritmi basati sui dati che costituiscono la spina dorsale di gran parte di Internet di oggi.
La famiglia Gonzalez scommette proprio su questo e sostiene che Google può essere citato in giudizio perché la questione riguarda la promozione dei contenuti.
Numerosi avvocati statunitensi hanno ripetutamente confermato che la sezione 230 protegge anche dalla pubblicazione o promozione di contenuti potenzialmente dannosi. Ma è fin troppo chiaro che se Google dovesse perdere la causa Gonzalez, significherebbe che è ritenuto responsabile per contenuti illegali pubblicati da altri, almeno se tali contenuti sono promossi da un algoritmo. Cambierebbe tutto. O magari adeguare in primis una legge ai tempi nostri.