Alessia Piperno, i racconti shock: “Nel carcere di Evin esecuzioni e torture”. Aumentano le preoccupazioni per le sorti della ragazza. Nel frattempo, la Farnesina sta già lavorando per riportare la giovane in Italia.
Ancora poco chiara la vicenda di Alessia Piperno, 30 anni, che da cinque giorni è in arresto in Iran. La ragazza è stata infatti portata nel carcere di Teheran per motivi ancora sconosciuti. La notizia era stata inizialmente diffusa dal padre della giovane, lanciando un appello affinché le autorità potessero muoversi per aiutare la figlia trattenuta all’estero. Dal canto suo, la Farnesina ha già annunciato che si sta muovendo, e sarebbe già al lavoro per mettersi in contatto con le autorità locali e riportare Alessia in Italia.
Ma le preoccupazioni per la sorte della giovane “viaggiatrice solitaria” – così come la definisce suo padre – sono tante. Risaputo, infatti, è che le carceri iraniane sono molto affollate, e la polizia gode di una reputazione decisamente poco rassicurante. Diverse volte, infatti, le forze dell’ordine locali sono state accusate di violare i diritti umani dei detenuti, accanendosi in particolar modo nei confronti delle donne.
“Costretto alla finta fucilazione per 5 volte”
Molte le preoccupazioni in merito alla sorte della giovane Alessia Piperno, la 30enne italiana arrestata in Iran e detenuta nel carcere di Evin, a Teheran. Secondo quanto emerso dai racconti degli ex detenuti della struttura penitenziaria, infatti, pare che entro quelle spesse mura vengano effettuate finte esecuzioni, imposte torture e altre pressioni psicologiche ai carcerati.
A spiegare le dinamiche del carcere è stata Sahar, 40enne iraniana rifugiata in Italia che nel 2010 è stata detenuta in quella prigione. La donna ha raccontato a La Presse di essere stata posta in isolamento, rinchiusa in una stanza di appena un metro quadrato con le luci sempre accese. “All’inizio avvicinavano alla cella mio figlio di otto anni, tanto che sentivo il suo pianto assieme alle urla di mio marito [anche lui incarcerato, ndr.]”, ha rievocato drammaticamente Sahar. Un giorno, addirittura, hanno costretto la donna a mettere il cappio intorno al collo del marito. “Dopo avermi picchiata, mi hanno ordinato di spingere via la sedia che lo reggeva per ucciderlo. Subito dopo ho cercato di salvarlo reggendo il suo corpo da sola per qualche minuto e sollevarlo”, ha spiegato drammaticamente la donna.
Sia lei che il compagno erano stati arrestati perché ritenuti simpatizzanti dei “muezzin del popolo”. I poliziotti avevano dunque inscenato la finta esecuzione, con uno dei mullah che insisteva affinché i due collaborassero – sebbene nessuno di loro sapesse qualcosa. Entrambi sono stati in seguito rilasciati, ma a subire un destino simile è stato anche Javad. Rifugiato a Roma, l’uomo ora ha 60 anni, ed è rimasto senza un ginocchio proprio a seguito delle torture ricevute in carcere. Nei suoi racconti Javad ricorda la “piscina delle esecuzioni“. “Ci hanno fatti mettere a terra vicino ai bordi della piscina e hanno cominciato a sparare contro di noi”, ha infatti spiegato l’uomo. A morire, quella volta, sono stati in tanti. “I corpi insanguinati sono stati gettati nella piscina, ma hanno voluto che io sopravvivessi chiedendomi di collaborare”, ha aggiunto l’uomo. Che ha spiegato, tra l’altro, di essere stato sottoposto a questa “finta fucilazione” per ben cinque volte. “Dopo cinque anni sono stato rilasciato”, ha concluso l’uomo.