Presentata fin dall’inizio come l’unica speranza di salvezza del paese, l’agenda Draghi si è in realtà rivelata antitetica alla democrazia.
“C’è una cosa strana riguardo al ruolo del Sig.Draghi come simbolo di democrazia, che è questa: non ha mai ricevuto un singolo voto da nessuno”
Sono molteplici gli spunti di riflessioni offerti dall’editoriale uscito recentemente sul New York Time a firma di Christopher Caldwell.
Il giornalista analizza la situazione politica italiana alla luce della crisi di governo che ha portato Mattarella (suo malgrado) ad indire elezioni anticipate. Un articolo tagliente, un invito a riflettere su un dilemma fin troppo trascurato nel nostro paese. Da due anni sentiamo ossessivamente parlare di un’agenda Draghi e della funzione salvifica che questa espressione sembra racchiudere in sé, della necessità di dover affrontare l’emergenza sanitaria-economica affidandosi esclusivamente a chi può vantare un certo credito sul mercato finanziario. Chi ha, insomma, la credibilità necessaria per continuare a garantire che il nostro paese ripagherà i suoi debiti e gli impegni presi con l’Ue di riduzione della spesa pubblica. Le dimissioni di Draghi sono state vissute da una buona parte della politica con profondo rammarico, se non vera e propria disperazione, come se la scelta di richiamare al voto fosse fatta in realtà contro il volere e gli interessi degli elettori.
Ma questo in realtà è esattamente il pensiero di Enrico Letta a riguardo.
Fino a che punto possiamo trascurare il fatto che parliamo di un’agenda politica che tutti ci presentano come indispensabile ma che non è mai stata votata da nessuno?
L’uomo da cui trae il suo nome non ha mai avuto interesse ad approcciarsi alla politica pura, e dunque di sottoporsi al giudizio popolare. Come fa notare Caldwell nel suo editoriale “per quanto capace e dal bel curriculum, le sue dimissioni sono un trionfo della democrazia, almeno secondo il significato che solitamente viene attribuito alla parola democrazia”. Il rischio altrimenti è quello di un’assuefazione totale a dei governi tecnici che, a partire dall’entrata in scena di Mario Monti nell’ormai lontano 2011, sembrano diventati per la democrazia l’unica soluzione possibile tutte le volte che il mercato finanziario crolla di colpo. Il diktat che i mercati rivolgono al nostro paese in fondo è semplice e drammatico: “Potete avere il denaro necessario a salvare la vostra nazione se Draghi è il vostro primo ministro, hanno essenzialmente detto agli italiani, altrimenti scordatevelo. Viste le circostanze non c’é niente di populista o di pro-putiniano o di irragionevole nel preoccuparsi per le conseguenze che la propria democrazia potrebbe soffrirne”
Il merito di quest’articolo è quello di avere messo a nudo il vero problema, il motivo per cui l’assoluta indispensabilità di Mario Draghi, strombazzata in ogni dove negli ultimi due anni, dovrebbe preoccupare non poco persino coloro che hanno sempre creduto all’armonia possibile e fattuale tra democrazia e mercato. Soltanto chi sta simpatico ai mercati finanziari, chi ha saputo instaurare con loro un dialogo proficuo, può fare il bene del paese. Continuiamo a parlare della necessità di portare avanti un’agenda tecnica, una programmazione politica che tiene conto di ciò serve al mercato, e mai di ciò che viene richiesto dai cittadini.
Un bene superiore, quello della stabilità finanziaria, che deve essere inseguito ad ogni costo, anche a discapito di una maggioranza popolare che, sondaggi alla mano, scalpita per avere soluzioni politiche di uscita dalla crisi evidentemente diverse da quelle proposte da Draghi.
Mai dimenticare come nella storia dell’umanità, qualunque progetto politico presentato come assoluto e necessario, svincolato da qualsiasi tipo di volontà popolare, si è sempre rivelato l’incubatore perfetto per il totalitarismo che verrà.
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