Mattarella ha respinto le dimissioni di Draghi e lo ha invitato a presentarsi in Parlamento per riferire alle Camere.
Ma il premier ha lasciato poco spazio per un Draghi bis. Per lui si è incrinato il patto che reggeva il governo di unità nazionale.
È terminato con un lungo applauso quello che – salvo ripensamenti che appaiono sempre più improbabili col passare delle ore – è stato l‘ultimo consiglio dei ministri di Mario Draghi. Non sembra disposto a tornare sui suoi passi il supertecnico chiamato 17 mesi fa da Mattarella alla guida di un governo di alto profilo» dopo l’ingloriosa caduta dell’esecutivo guidato da Conte.
Proprio Conte adesso ha aperto la crisi che ha portato alla fine del governo Draghi. I partiti sperano nei tempi supplementari», come ha detto il ministro Giorgetti. Ma per il premier la partita appare ormai chiusa al novantesimo. Anche se, per rispetto del galateo istituzionale, per rassegnare le dimissione non ha scelto la formula definitiva, quella delle dimissioni «irrevocabili». Ma chi lo conosce bene è pronto a giurare che Draghi non si ripresenterà sul terreno di gioco dei partiti. Né è solito tornare suoi suoi passi. Per lui si è rotto il «patto di fiducia» che univa la maggioranza di governo. Un domani potrebbe essere un altro (magari Salvini) a minacciare lo strappo con l’esecutivo.
Così Draghi, tra tensioni e silenzi imbarazzati, ha aperto l’ultima riunione del Cdm soffocando le residue speranze dei ministri a lui più vicini: «Voglio annunciarvi che questa sera rassegnerò le mie dimissioni nelle mani del presidente della Repubblica». Parole inequivocabili, riportate dal Corriere della Sera, che aprono la crisi: «La maggioranza di unità nazionale non c’è più. È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo».
Draghi non menziona Conte, né i Cinque Stelle. Il premier annuncia le sue dimissioni rivendicando di averci messo «il massimo impegno per proseguire nel cammino comune», malgrado le tensioni e quelle che definisce le «esigenze» delle forze politiche. Una maniera elegante per dare corpo al «ne ho piene le tasche» confidato a Tajani nelle ore della lettera-ultimatum di Conte. Ma il senso è che la maggioranza per Draghi non c’è più. Dopodiché, prima dell’applauso finale, i ringraziamenti peri risultati raggiunti malgrado la durata non lunga del governo – e le parole di stima per i ministri.
Quando scende dal Colle, l’impressione è che un piccolo spiraglio per un Draghi bis ci sia, anche se ridotto al lumicino. E sempre più piccolo col passare delle ore. Il Quirinale sperava di convincerlo a tornare alle Camere per un dibattito parlamentare e per un nuovo voto su una risoluzione. Gli appelli, in asse con Mattarella, giungono soprattutto dal Pd.
Ma per Draghi il punto è sempre quello: davanti al Paese ci sono grandi sfide che richiedono unità. Una unità che per lui è perduta. E senza la quale il governo potrebbe solo vivacchiare. Pesano anche i 75 anni di Draghi che, dopo una lunga carriera ricca di successi a livello internazionale, non sembra aver voglia di farsi logorare dai partiti. Mercoledì riferirà alla Camere. Magari cogliendo l’occasione per levarsi qualche sassolino dalle scarpe, anche pure col suo aplomb britannico.
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