Tra gli alleati più fedeli di Uber, secondo il voluminoso dossier raccolto dal Guardian, il presidente francese Emmanuel Macron, all’epoca ministro dell’economia.
Ma l’azienda californiana avrebbe fatto pressioni anche su altri leader mondiali per raggiungere i suoi obiettivi.
C’è il nome di Emmanuel Macron negli “Uber files”, la raccolta di documenti ottenuti dal Guardian sull’azione di lobbying della società americana. Ne è uscito un corposo dossier condiviso con il Consorzio internazionale di giornalismo investigativo e altre 42 testate. Tra le quali Bbc, Le Monde, L’Espresso. Un dossier che ha messo assieme più di 120 mila intercettazioni, 83 mila mail e altri file sulle operazioni di Uber tra 2013 e 2017.
Le carte accusano Uber di aver violato le leggi e di aver esercitato pressioni su vari governi per espandere la propria presenza nel mondo. Un’azione lobbistica che ha visto finire nel mirino di Uber, oltre al presidente francese, anche altri nomi eccellenti della politica mondiale. Come quello dell’attuale cancelliere tedesco Olaf Scholz, del presidente americano Joe Biden e dell’ex primo ministro italiano Matteo Renzi.
Ma a differenza di Macron, allora ministro dell’Economia, Scholz, sindaco di Amburgo all’epoca dei fatti, non avrebbe ceduto al ‘pressing’ di Uber. Il futuro cancelliere avrebbe difeso anzi una paga minima per gli autisti. La cosa naturalmente non fu gradita dai vertici di Uber, tanto che i suoi manager bollarono Scholz come “un vero comico“.
Non appare chiara la posizione di Joe Biden, ma secondo il Guardian l’azienda californiana avrebbe tentato di fare pressione su di lui nel corso del World Economic Forum di Davos. E a quanto pare anche nei riguardi di Matteo Renzi la società americana cercò di fare pressioni.
I legami di Uber con Macron
“Super riunione con Emmanuel Macron questa mattina. Tutto sommato la Francia ci ama”. È il commento entusiasta inviato ai propri colleghi il primo ottobre 2014 dal lobbista di Uber Mark MacGann dopo l’incontro con Macron.
Poche ore prima, esattamente a mezzanotte, era entrata in vigore la legge Thevenoud. Una normativa che metteva molti paletti alla società americana, inasprendo le regole per diventare autisti di Uber. Inoltre la legge proibiva UberPop, il servizio di ride sharing che permetteva a qualunque automobilista privato di poter lavorare come autista Uber, scatenando le vibranti proteste dei tassisti francesi.
Quello di MacGann è solo uno delle migliaia di documenti relativi al periodo 2013-2017. Per quel che riguarda il capitolo della Francia, è emerso in particolare il ruolo chiave rivestito da Macron, una specie di alleato di ferro di Uber in seno al governo francese. L’attuale presidente francese avrebbe stretto un patto con l’azienda americana per “fare in modo che la Francia lavori per Uber e quest’ultima, in cambio, possa lavorare in e per la Francia”.
Altri guai dunque per Macron sul fronte interno, dopo la dèbacle alle elezioni legislative che gli ha tolto la maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale. Adesso arriva lo scandalo degli “Uber files” che ha alimentato ancor più l’opposizione, già ai ferri corti con lui.
Opposizioni scatenate contro il presidente francese
Da parte di Uber France è arrivata la conferma che le due parti erano in contatto e che gli incontri con Macron erano una prassi usuale che rientrava nella sua sfera di competenza come ministro dell’Economia. Una precisazione che non ha certo evitato gli attacchi feroci a Macron da parte della sinistra radicale. A cominciare da Mathilde Panot di France insoumise e da Fabien Roussel, leader del partito Comunista. Tutti all’attacco del “lobbista” Macron al servizio di “una multinazionale americana che voleva deregolamentare permanentemente il diritto del lavoro”. Dal deputato comunista Pierre Dharreville è arrivata la richiesta di un’indagine parlamentare sul caso, trovando anche la sponda di Le Monde.