Per l’attentatore dell’ex premier del Giappone potrebbe arrivare la pena capitale. Nel Paese asiatico è inflitta anche agli autori di delitti efferati o eclatanti.
La violenza politica in Giappone è rara, ma l’attentato a Abe non è un caso isolato. Anche il nonno dell’ex premier venne aggredito negli anni ’60.
Rischia la pena di morte Tetsuya Yamagami, il 41enne che ha ucciso a Nara, nel Giappone occidentale, l’ex premier giapponese, Shinzo Abe, morto in ospedale per i colpi ricevuti malgrado più di quattro ore di tentativi di rianimazione da parte dei medici.
Yamagami, stando a quanto comunicato dalla polizia di Nara, ha giustificato l’attentato con la sua ‘insoddisfazione’ nei confronti dell’ex primo ministro. Una volontà di uccidere alimentata anche dal rancore verso un “gruppo specifico” che reputava collegato all’ex premier.
In Giappone vige la pena di morte, che gode di un elevato consenso nella popolazione, a dispetto delle critiche internazionale e dell’opposizione degli attivisti. Lo scorso anno, quando era già in carica l’attuale primo ministro, Fumio Kishida, il Paese orientale è tornato ad applicarla dopo un biennio senza esecuzioni. Così a dicembre 2021 sono stati impiccati in tre, tutti condannati per omicidi multipli. Era dal 2019 che non si eseguivano condanne a morte in Giappone, dove più di cento persone nel braccio della morte aspettano di essere giustiziate.
La pena di morte è inflitta in caso di “crimini atroci”, aveva detto il vice segretario capo di gabinetto, Seiji Kihara: è “necessaria” per punire i reati “estremamente gravi”, aveva dichiarato. Aggiungendo che dunque era “inappropriato” abolirla. La pena capitale colpisce soprattutto i pluriomicidi. Come nel 2018, quando il boia ha tolto la vita a tredici membri della setta Aum Shinrikyo, protagonista dell’attentato terroristico col gas nervino nella metropolitana di Tokyo nel 1995, un attacco che aveva sconvolto il Paese asiatico.
L’attentato a Abde cade a pochi giorni dal quarto anniversario dell’esecuzione del leader del gruppo, Asahara Shoko, ucciso insieme ad altri sei membri della setta la mattina del 6 luglio di quell’anno. Ma la pena di morte può essere comminata anche in caso di singoli omicidi, purché particolarmente efferati. Esattamente i termini impiegati ieri da Kishida, che ha condannato “nei termini più duri possibili” l’aggressione ad Abe, definendola “imperdonabile”.
Gli attentati a politici di spicco, in Giappone, avvengono raramente. Ma quanto successo a Nara non è certo un unicum. I casi più eclatanti sono stati l’accoltellamento, nel 1921, dell’allora primo ministro, Takahashi Hara, morto dopo un’aggressione alla stazione di Tokyo da parte di un dipendente delle ferrovie. Mentre il 15 maggio del 1932 alcuni membri della marina giapponese si erano introdotti nell’ufficio dell’allora primo ministro, Tsuyoshi Inukai, uccidendolo a colpi di arma da fuoco.
Anche il nonno di Abe, Nobusuke Kishi, subì un attentato. Lo accoltellarono a una coscia nel 1960, quando era primo ministro, durante un ricevimento nel suo ufficio. In tempi più recenti, invece, va ricordata l’uccisione, a colpi di armi da fuoco, del sindaco di Nagasaki, Itcho Ito, nel corso della campagna elettorale del 2007.
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