È Election Day. Oggi, dalle 7 alle 23, si voterà per i cinque referendum sulla giustizia proposti da Radicali e Lega.
Ma non solo: si voterà anche per rinnovare quasi mille amministrazioni comunali. Oltre 8,5 milioni gli italiani chiamati al voto.
Alle urne, per eleggere nuovi sindaci e nuovi consiglieri comunali, si andrà in 978 Comuni. Tra questi, i capoluoghi di Regione sono quattro: Genova, Palermo, Catanzaro e L’Aquila. I capoluoghi di provincia sono 22: Alessandria, Asti, Barletta, Belluno, Como, Cuneo, Frosinone, Gorizia, La Spezia, Lodi, Lucca, Messina, Monza, Oristano, Padova, Parma, Piacenza, Pistoia, Rieti, Taranto, Verona, Viterbo. Nel caso in cui nessuno candidato alla carica di sindaco riuscisse a superare la soglia del 50% più uno delle preferenze si andrà al ballottaggio il 26 giugno nei Comuni che superano i 15mila abitanti.
Sui referendum sono chiamati a esprimersi 51,5 milioni di elettori. L’articolo 75 della Costituzione prevede che per essere validi debba votare il 50% più uno degli aventi diritto. Cinque le schede per cinque colori:
Il primo quesito chiede l’abrogazione della Legge Severino. È la norma che prevede la sospensione per gli amministratori locali (governatori, sindaci, assessori) condannati anche solo in primo grado, senza aspettare la sentenza definitiva. Le Legge Severino prevede – in caso di condanna non definitiva – la sospensione automatica dalla carica per un periodo non superiore a 18 mesi.
In caso di vittoria del “sì”, però, anche i condannati in via definitiva potranno candidarsi alle elezioni politiche e amministrative, o continuare il mandato. Decadrà inoltre la sospensione automatica della carica in caso di condanna non definitiva. Se vincerà il “sì” si tornerà a quanto accadeva prima dell’entrata in vigore del decreto Severino. Saranno cioè i giudici a decidere, caso per caso, se applicare o meno, in caso di condanna, la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.
Il secondo quesito vuole limitare i casi in cui i giudici possono disporre l’applicazione delle misure cautelari. Vale a dire l’arresto di un indagato o di un imputato prima della condanna. I casi che giustificano la detenzione preventiva di una persona ancora non condannata indicati nell’articolo 274 del codice di procedura penale. E sono: rischio di fuga, di inquinamento delle prove o che la persona indagata si renda colpevole altri reati.
In caso di vittoria del “sì” verrebbe eliminata l’ultima parte dell’articolo 274. Ovvero la possibilità, per i reati di minor gravità, di giustificare la misura cautelare col pericolo che la persona faccia altri reati. Cioè quella che, a giudizio dei promotori del referendum, è la motivazione oggi più usata per limitare la libertà personale prima della sentenza definitiva.
Il terzo quesito riguarda il tema – discusso da lungo tempo – della separazione delle carriere dei magistrati. Si mira a separare le funzioni giudicanti e requirenti dei giudici. Oggi i magistrati possono passare dalla carriera di giudice (funzione giudicante) a quella di pubblico ministero (funzione requirente) e reciprocamente. Anche se con alcune limitazioni e per un massimo di quattro volte. Il quesito vuole abrogare le molte disposizioni che permettono ai giudici di passare da una carriera all’altra. Con la vittoria del “sì” ci sarebbe una netta separazione delle due funzioni. Così il magistrato dovrebbe scegliere a inizio carriera se diventare giudice o pubblico ministero.
Il quarto quesito chiede l’abrogazione delle norme che impediscono a avvocati e professori universitari di valutare professionalmente i magistrati. Che oggi sono valutati ogni quattro anni dal Consiglio superiore della magistratura (Csm). Una valutazione che avviene sulla base di pareri motivati – ma non vincolanti – del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari. Si tratta di due organi composti da giudici e membri laici, ovvero avvocati e talvolta docenti universitari in materie giuridiche. Questi ultimi forniscono pareri, ma non hanno diritto di voto sull’operato dei magistrati. Lasciando così solo ai magistrati il compito di giudicare altri magistrati. In caso di vittoria del “sì” anche i membri laici – avvocati e professori universitari – avrebbero diritto di voto nel Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari.
Il quinto e ultimo quesito riguarda l’elezione dei “membri togati” (cioè i magistrati) del Csm, l’organo di autogoverno della magistratura. Il quesito vuole modificare le norme che regolano le modalità di presentazione delle candidature. Oggi un magistrato che vuole proporsi come membro del Csm deve raccogliere almeno 25 firme di altri magistrati che sostengono la sua candidatura.
Con la vittoria del “sì” verrebbe meno l’obbligo di raccogliere le firme. Si tornerebbe così alla legge originale che regola dal 1958 il funzionamento del Csm. Ogni magistrato potrebbe candidarsi autonomamente senza il sostegno di altri magistrati. E soprattutto senza essere appoggiato dalle “correnti” politiche interne al Csm. I promotori vogliono ridurre il peso di queste correnti nelle candidature al Csm.
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