Dopo il Covid l’assistenza e la cura ai malati extra-coronavirus resta difficile da gestire. Lo mostrano diversi casi recenti.
Una lacuna dovuta non alla cattiva volontà del personale medico, che anzi lavora con dedizione e impegno, ma a carenze strutturali come i buchi negli organici e la mancanza di apparecchiature anche basilari.
Complice l’emergenza sanitaria, la cura e l’assistenza ai malati non-Covid vanno spesso in apnea. Come nel caso dell’ex professoressa di lettere ultraottantenne lasciata 11 ore in barella a Roma in attesa di essere visitata al pronto soccorso dell’ospedale Santo Spirito, in pieno centro, a due passi da San Pietro.
Un caso che non sembra affatto isolato, da ciò che dice il Corriere della Sera. Si moltiplicano, racconta il giornale, le testimonianze e le segnalazioni che indicano il superamento di un livello di guardia. Sono decine i racconti arrivati in poche ore al Corriere dopo il caso di Santo Spirito. E tutti parlano di carenze di personale medico-infermieristico, di strutture degradate, di ritardi elefantiaci nella diagnostica. Addirittura mancano apparecchiature di base come un semplice otoscopio da bocca per visitare la gola di una paziente.
Ritardi, omissioni, superficialità
A essere bersagliato dalle critiche, riferisce il Corriere, un ospedale storico di Roma, il Sant’Eugenio, al quartiere Eur. Una signora racconta del marito, seriamente malato di colangite sclerosante, lasciato per cinque giorni consecutivi in barella. Un’altra parla di una lesione ai nervi spinali scoperta solo anni dopo con una risonanza che all’epoca non avevano voluto farle, per giunta dopo averla lasciata «urlare e piangere per i dolori per ben 3 ore e mezza».
Le accuse ricorrenti sono omissioni, superficialità, ritardi. C’è chi riferisce di aver dovuto minacciare di chiamare i carabinieri per avere un posto in medicina d’urgenza, dopo giorni in astanteria in attesa di un posto letto. O chi, come Rossella Stomaci, casalinga residente a Roma sud, che racconta al Corriere un episodio vecchio ma rimastole impresso nella memoria: «Mia madre fu ricoverata al Sant’Eugenio otto anni fa: l’hanno tenuta per otto giorni in una stanza vicino al pronto soccorso, e per visitarla ci hanno messo diverse ore. Quando sono arrivata si sentiva cattivo odore e ho pensato: ma questa è l’Italia? Peggio del terzo mondo. Mai più… Mia madre poi fu messa in un reparto, ma morì tempo dopo».
Visitata alla gola con la torcia del telefonino
C’è poi una vicenda sconcertante, sempre avvenuta al Sant’Eugenio. A riferirla una docente di economia dell’università La Sapienza. Che racconta di essersi recata il 13 marzo scorso al pronto soccorso per un edema oculare causato da allergia a ibuprofene. La professoressa, cinquantenne, confessa di essere «rimasta allucinata da quel che ho visto». Al pronto soccorso, racconta, «la dottoressa di turno mi ha visitato la gola con la lucetta del cellulare dell’infermiere di turno, che aveva nel frattempo toccato tutti i pazienti del reparto». Ha patito anche due settimane dopo. In quel caso si trattava di un edema alla gola e alle labbra a causa dell’allergia al colluttorio. Aveva però deciso di cambiare ospedale, andando «al pronto soccorso del Policlinico Umberto I, dove sono entrata alle 17 e uscita alle 5 del mattino. Mi hanno curata egregiamente, ma era super affollato e con un solo medico di turno, il quale, poveraccio visitava accuratamente tutti …»
Come nel caso clamoroso del Santo Spirito (per il quale la Asl Roma 1 si è scusata) medici e infermieri lavorano alacremente, anche fino allo stremo delle forze. Ma non riescono a garantire la qualità del servizio perché latitano organico e apparecchiature. «Trovo allucinante tutto questo – è la conclusione della professoressa universitaria – Bisognerebbe fare qualcosa, i medici sono stanchi dei ritmi forsennati, e noi cittadini anche, con motivazioni serie…».