Tanti i dubbi su chi possa aver realmente “imbeccato” i finti pentiti che hanno depistato le indagini sulle stragi mafiose degli anni ’90.
Molti e inquietanti i dubbi sull’attendibilità dei pentiti. Li esprimono i familiari delle vittime innocenti di mafia.
“Mentre a Caltanissetta è in corso il processo che vede imputati tre poliziotti che facevano parte del ‘Gruppo Falcone e Borsellino’ (Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei), coinvolti nella gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino, diventano sempre più inquietanti i dubbi su quanti e chi siano i soggetti realmente coinvolti nel depistare le indagini sulla strage di Via D’Amelio“. Lo afferma Giuseppe Ciminnisi. È il coordinatore nazionale dei familiari di vittime innocenti di mafia, dell’associazione ‘I Cittadini contro le mafie e la corruzione’.
Ciminnisi ricorda come secondo l’accusa – sostenuta dal pm Stefano Luciani – La Barbera (allora a capo del gruppo) e i poliziotti oggi imputati, avrebbero costretto il pentito Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso. A giudizio del pm, dice Ciminnisi, alcuni elementi “dimostrerebbero convergenze nella ideazione della strage di via D’Amelio tra i vertici e gli ambienti riferibili a Cosa nostra e ambienti esterni all’organizzazione mafiosa”.
Per Luciani, continua Ciminnisi, la comprensione del depistaggio passa attraverso il “confronto tra le dichiarazioni rese da Scarantino e quelle successivamente rese da Gaspare Spatuzza, che sarebbero pressoché sovrapponibili, salvo la presenza di un individuo all’interno del garage di via Villasevaglios non conosciuto da Gaspare Spatuzza e dallo stesso individuato come possibile soggetto esterno all’associazione mafiosa, del quale Scarantino non ha mai parlato”.
Chi ha “imbeccato” il falso pentito?
I famigliari delle vittime si chiedono chi abbia realmente “istruito” il finto pentito: “Se Scarantino, così come emerso processualmente, era un ‘picciotto’ della Guadagna che nulla poteva sapere di importanti fatti di mafia come la strage di Via D’Amelio, chi lo mise nelle condizioni di rendere dichiarazioni sovrapponibili a quelle di un vero pentito di mafia come Spatuzza? Potevano i soli poliziotti oggi a processo – si interroga Ciminnisi – avere ‘imbeccato’ il falso pentito?”
Non è l’unico caso – ricorda il coordinatore dei parenti delle vittime di mafiosi – di pentiti “discussi” che prima delle stragi di mafia dove furono uccisi Falcone e Borsellino hanno parlato di fatti e eventi di cui non potevano avere conoscenza. Ciminnisi fa il nome di Vincenzo Calcara, ad esempio. Il riferimento è al “recente processo per diffamazione tenutosi ad Agrigento che vedeva l’ex collaborante parte offesa, essendo stato definito ‘falso pentito’ – terminato con l’assoluzione dell’imputato”.
Nel corso del procedimento c’è stata la “testimonianza del giudice Massimo Russo. Russo, che ben conosce le vicende di mafia del trapanese, nel ribadire che Calcara non fu mai un appartenente a ‘Cosa nostra’, nel corso della sua deposizione aggiunge che ‘però diceva delle cose, come dire, intriganti. Per esempio parla dell’attentato a Borsellino, anticipando di 8 mesi quello che sarebbe accaduto. A un certo punto fa riferimento al notaio Albano. Un soggetto che, per come abbiamo ricostruito successivamente, era certamente fuori dalle dimensioni relazionali del Calcara. Nel ‘93/94 si pente Brusca e ci racconta del notaio Albano che, credo su richiesta di Andreotti, portò il piatto d’argento o a Nino o a Ignazio Salvo, in occasione del matrimonio della figlia. E questa circostanza certo non mi sfuggì: ma come faceva Calcara – si chiede Ciminnisi – a parlare del notaio Albano, come faceva a parlare del notaio Albano due anni prima?’”.
Un depistaggio mai interrotto
Insomma, ci sono “due pentiti – Scarantino e Calcara – che parlano di cose al di fuori della loro portata, utili però a indirizzare indagini su false piste, prima e dopo le stragi. Cui prodest?”, continua Ciminnisi che parla di “un depistaggio mai interrotto” riferendosi “a quanto affermato dal pm Luciani rispetto le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola”.
A suscitare forti interrogativi – se non foschi sospetti – sull’azione di alcuni “pentiti”, afferma Ciminnisi, sta “il fatto che nonostante non siano stati gestiti dagli stessi appartenenti alle forze dell’ordine, le loro storie presentano inquietanti analogie“.
Qui siamo forse in presenza di qualcosa di più che rubagalline (Il pm Luciani si era riferito a Scarantino come a uno “scassapagliaro”). Viene da pensarlo, continua Ciminnisi, “considerato il numero dei falsi pentiti dei primi anni ’90, di modestissimo spessore criminale, trasformati in ‘uomini d’onore’ a conoscenza dei più reconditi fatti di ‘Cosa nostra’”.
Forse allora, termina Giuseppe Ciminnisi, “come affermato dal giudice Russo nel corso del processo ad Agrigento, bisognerebbe ripartire da prima delle stragi; quantomeno da quel 1991 quando a Castelvetrano si tengono le riunioni che metteranno in fibrillazione il nostro paese nel ’92 e ’93. Bisognerebbe forse ricominciare da lì per comprendere. Cominciare dalle notizie sull’attentato a Borsellino… ”.