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Politica

Mentre difende i diritti umani in Ucraina, l’Occidente abbandona Assange

E’ passata quasi del tutto sotto traccia la decisione dei giudici inglesi, che hanno decretato l’estradizione di Julian Assange negli Usa. Il giornalista che denunciò attraverso WifiLeaks i crimini di guerra commessi in Afghanistan ed Irak rischia 175 anni di carcere.

Nessuno ne parla, o quasi: il che sorprende, visto che i concetti di “diritti umani” e “libertà” sono al centro dei dibattiti politici e del confronto politico e mediatico in tutto il cosiddetto “Occidente”. Eppure sono quasi dieci giorni che la Westminster Magistrates Court di Londra ha deciso che Julian Assange – il giornalista ed attivista australiano che nel 2010 rivelò tramite Wikileaks documenti riservati degli Stati Uniti riguardanti crimini di guerra commessi in Afghanistan ed Iraq – può essere estradato negli Usa. Un lasso di tempo in cui si sarebbe potuto ragionare sulle implicazioni di una notizia, analizzarne il senso, commentare anche l’enorme dose di ipocrisia che anche noi, come paese, esprimiamo diventando complici di scelte che oggettivamente sono contrarie ai principi di libertà di espressione e soprattutto di informazione.

Julian Assange

Un calvario lungo dodici anni

Julian Assange è il giornalista e mediattivista che attraverso Wikileaks (di cui è cofondatore), nel 2010 divulgò una serie di documenti secretati ricevuti dall’allora analista e militare americana Chelsea Manning. Si trattava di decine di migliaia di documenti alcuni dei quali rivelavano crimini di guerra commessi dalle truppe statunitensi in Iraq ed in Afghanistan. Uno scoop incredibile, che ogni giornalista libero avrebbe cercato di divulgare: nel caso di Assange, essendo Wikileaks una struttura informativa con finalità etiche, i documenti secretati vennero pubblicati e resi disponibili a tutti. Da quel momento scattò, per Assange e per la Manning, una persecuzione che spesso è diventata palese violazione dei diritti umani, come denunciato da decine di associazioni e organizzazioni, comprese le Nazioni Unite. Per Assange, in particolare, iniziò un calvario che dura ancora, e ancora molto proseguirà, a quanto pare. Accusato di violenze sessuali in Svezia (mai del tutto accertate), fu chiesta dal governo svedese una estradizione che, secondo Assange ed i suoi legali, nascondeva la volontà di inviarlo negli Usa per farlo processare per spionaggio. Assange si consegnò a Scotland Yard (era in Gran Bretagna), poi chiese asilo politico all’Ecuador, che lo accolse nella sua ambasciata di Londra. Assange rimase blindato nelle poche stanze dell’ambasciata per anni, fino al 2019. A quel punto il nuovo presidente dell’Ecuador, Lenin Moreno, si rimangiò gli impegni del predecessore Correa e concesse alla polizia inglese di accedere nell’ambasciata e di arrestarlo. A quel punto Assange viene recluso in un carcere inglese, dove è tuttora: a separarlo dall’estradizione negli Stati Uniti rimane solo la volontà del governo inglese. Vista la vicinanza politica con gli Usa, sembra quasi scontato che il cofondatore di Wikileaks sia destinato a finire in una prigione americana.

Guerra in Iraq

La grande ipocrisia e la fine del giornalismo

Assange rischia 175 anni di carcere, negli Stati Uniti.  Per aver fatto quello che è il dovere di chiunque si occupi di informazione: aver divulgato informazioni di interesse pubblico. Il fatto che alcuni militari americani si fossero macchiati di crimini di guerra in Afghanistan ed Iraq è una notizia di interesse pubblico: lo stiamo verificando tutti in questi giorni, quando le violenze contro i civili commesse in Ucraina vengono raccontate come crimini di guerra, e si richiedono commissioni di inchiesta per fare chiarezza ed esprimere condanne. E tanti giornalisti, a rischio della propria vita,  provano a raccogliere prove, di questi crimini. E se a fornire informazioni decisive a confermarli, quei crimini di guerra, fosse un informatore russo? Non sarebbero comunque fatti di interesse pubblico? Lo sarebbero: come quelli divulgati da Assange dodici anni fa. La sua estradizione, e la sua eventuale condanna, andrebbero a colpire duramente il giornalismo di inchiesta. Andrebbero a sancire che diffondere notizie di interesse pubblico è reato, che andare a raccontare alcuni fatti è più rischioso che raccontarne altri. Sancirebbe anche, e definitivamente, che è in atto una operazione politica, mediatica e culturale gravissima, volta a sostenere che le stesse azioni non hanno lo stesso valore se commesse da soggetti diversi. Per essere chiari, se a commettere un crimine di guerra è l’Occidente, non se ne deve parlare. Se a commetterlo è un “nemico”, allora via libera alle inchieste.

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