Continua il viaggio di MeteoWeek alla scoperta del Reddito di base universale, una rivoluzione possibile che può evitare il pericolo di una disgregazione sociale in Europa.
Questa volta parliamo con Mariella Vitale, attivista del gruppo italiano che promuove l’adozione del Reddito di base presso l’Unione Europea ed autrice di lavori di ricerca di storia contemporanea.
Come mai in Italia non c’è un dibattito sul Reddito di Base Incondizionato?
“In Italia ci sono due elementi che non incoraggiano un dibattito su questo: una forte sfiducia e disistima negli italiani e nel sistema-paese (pensiamo agli attacchi feroci al Reddito di Cittadinanza basati su una minoranza di abusi senza tener conto delle statistiche) e la Costituzione che proclama solennemente la Repubblica basata sul lavoro.
Bisognerebbe ricordare che la Costituzione sancisce il diritto-dovere al lavoro, ma inteso come attività liberamente scelta e utile alla società (art. 4), non necessariamente legata a una remunerazione, come, ad esempio, è stata, per tanti decenni, quella delle casalinghe. Oggi invece si tende a confondere il lavoro costituzionalmente inteso con un impiego retribuito, legandolo a un mercato del lavoro sempre più iniquo, disfunzionale e ristretto e accade che molti diritti costituzionalmente garantiti siano in realtà legati al reddito: se non hai un impiego, e quindi un reddito, non hai accesso a tutte le cure di cui puoi avere bisogno, ma solo a quelle strettamente essenziali, di emergenza o percepite come tali, e nei tempi delle liste d’attesa; non hai accesso a qualunque grado di istruzione, poiché le borse di studio sono riservate solo agli studenti più performanti (e non sempre vengono elargite con puntualità); non hai la possibilità di farti valere in giudizio per difenderti da un sopruso, se non puoi pagare un avvocato; non puoi pagare neppure bollette o la tassa sulla spazzatura. Insomma, se non hai un impiego non hai diritti, non sei niente.”
Lei ha parlato di statistiche, quale scenario risulta dai dati ufficiali?
“In Italia risultano 22,8 milioni di occupati, a fronte di 15 milioni tra disoccupati e inattivi. I poveri sono ben 5,6 milioni (in povertà assoluta, a cui andrebbero sommate le cifre ben maggiori della povertà relativa). I posti di lavoro vacanti sarebbero appena circa 450 mila, di cui la maggior parte da imputare a decennali carenze formative e professionali e a disfunzioni nell’incontro tra domanda e offerta. Riguardo al RdC, il cui importo è limitato e non sommabile al reddito da lavoro se non in limiti molto stretti, un recente rapporto della Caritas ha evidenziato che solo il 44% delle famiglie in difficoltà lo riceve e che il 36% dei beneficiari non è in povertà assoluta.
A fronte di questi numeri, in uno scenario desolante da post pandemia e di guerra in Europa, con aumenti di costi energetici che fanno schizzare i prezzi verso l’alto, mentre i salari degli italiani sono addirittura diminuiti negli ultimi anni, anziché aumentare, solo una misura come questa potrebbe davvero salvare dall’indigenza (e quindi dall’assenza di diritti) coloro che sono finiti ai margini, oltre a tantissimi lavoratori che non guadagnano abbastanza, e potrebbe generare, oltre a una robusta crescita (necessaria per tenere sotto controllo il debito pubblico), molti posti di lavoro, come risulta da uno studio canadese.”
Ma, se la richiesta da parte degli imprenditori resta inevasa per la scarsità di figure professionali adeguate per carenze nel sistema scolastico e universitario, che utilità potrebbe avere il RBI? Non rischierebbe di far aumentare il già elevato di giovani che non studiano e non lavorano?
“Il RBI contribuirebbe a risolvere il problema (cui deve porre rimedio soprattutto il Ministero dell’Istruzione, con la creazione di indirizzi formativi adeguati alle nuove richieste del mercato del lavoro), perché un assegno mensile individuale e incondizionato consentirebbe ai ragazzi provenienti da realtà svantaggiate di dedicarsi agli studi con maggiore tranquillità, senza avere fretta di iniziare a lavorare per guadagnare, di riuscire a qualificarsi meglio e imparando anche a cercare impiego servendosi dei canali formali anziché presso amici, parenti e conoscenti. Anzi, è molto probabile che con esso la percentuale di giovani italiani che non studiano e non lavorano andrebbe a ridursi drasticamente, perché li aiuterebbe anche a investire nel proprio talento, inventando nuovi lavori o start-up utili alla società e a un vero progresso, senza avere la preoccupazione di un guadagno immediato per vivere e senza sacrificare le proprie aspirazioni, finendo in una spirale di demotivazione e disagio.
In conclusione, il RBI non solo non è in contraddizione con il lavoro, ma, al contrario, lo incoraggia e lo rende più qualificato. A differenza del RdC, non rappresenta una trappola della povertà, ma restituisce libertà, diritti ed energie creative di cui c’è bisogno per affrontare un mondo produttivo sempre più automatizzato. Inoltre incoraggerebbe ad avere figli, per ridurre il calo demografico e contribuirebbe a risolvere gli squilibri generazionali e pensionistici che minacciano di non lasciare risorse alla vecchiaia dei giovani.”