“Il nome di chi sbagliava veniva affisso in bacheca”, ricordano alcuni colleghi della ginecologa scomparsa. Ma non era l’unica umiliazione.
Le scarse piogge cha stanno caratterizzando questa ultima porzione d’inverno potrebbero affrettare i tempi. A marzo, quando le acque del lago di Santa Giustina si saranno ritirate, ripartiranno le ricerche. È passato quasi un anno dalla scomparsa della giovane ginecologa Sara Pedri, la 31enne di Forlì anni sparita nel nulla dal 4 marzo scorso senza lasciare altra traccia se non l’auto parcheggiata nei pressi del ponte di Mostizzolo, in val di Sole, col telefono cellulare all’interno della vettura. Poco prima di sparire scriveva: «Sono terrorizzata, non posso proseguire». La famiglia di Sara non smette di ricercare la verità, vuole risposte e aspetta il rientro dei cani molecolari che setacceranno nuovamente gli argini del lago. La sorella Emanuela si domanda il «perché dopo tre mesi di lavoro mia sorella abbia iniziato a sentirsi incapace». Ma per adesso le uniche risposte giungono dagli atti della Procura e da quanto riferiscono colleghe e ostetriche. «Era molto solare — ricorda una di loro — poi in poco tempo l’avevo visto “spenta”. Era un turno caotico con molte urgenze, l’avevo vista preoccupata e insicura. Credo che la sua insicurezza nascesse dalla paura di essere giudicata».
Un clima da “caccia alle streghe”
Il “Corriere della sera” ha potuto visionare le carte ancora inedite depositate in Procura. Il quotidiano di via Solferino osserva che queste carte, anche se nono sono tantissimi i riferimenti a Sara nelle testimonianze rilasciate alla polizia e alla Guardia di finanza, delineano i contorni del «clima di terrore», come è stato definito, impostosi all’interno del reparto di ginecologia dell’ospedale Santa Chiara di Trento, dove prevaleva la paura di sbagliare. «Il clima che aleggia nel reparto è la “caccia al colpevole”, che sia un caso problematico in sala parto, un parto difficile, qualsiasi tipo di problema, sembra che la priorità sia quella di trovare un colpevole», riferisce una professionista. Un’altra ostetrica spiega che nel reparto predominava una specie di «caccia all’errore» che si tramutava «regolarmente in attacchi sul profilo personale e professionale. Le reazioni spropositate a eventi critici, ma anche di minore rilevanza hanno creato un clima di costante paura di sbagliare portando a un “interventismo” estremo per evitare di subire il “processo”… Atteggiamenti vessatori e umilianti — così li definisce l’operatrice sanitaria — che sono diventati una prassi».
Umiliazioni pubbliche per chi sbagliava
Dagli atti emerge ancora la situazione complessa e ardua – affiorata anche dalle testimonianze rilasciata in aula da tre professioniste ascoltate dal giudice Enrico Borrelli con la formula dell’incidente probatorio su richiesta della Procura — in seno all’unità operativa guidata al tempo dal dottor Saverio Tateo (poi allontanato dall’Azienda sanitaria di Trento) e dalla sua vice Liliana Mereu, entrambi sotto inchiesta per maltrattamenti e abusi di mezzi di correzione. «Sono severo, ma non aggressivo», ha specificato di recente in una intervista l’ex primario del Santa Chiara. Una severità che, a sentire le testimonianze di molti professionisti che lavoravano nella struttura, prendeva forma concreta sotto forma di «punizione» pubblica per chi sbagliava o mostrava di non condividere la linea della governance. Così i meeting diventavano l’occasione per «umiliare» pubblicamente, senza contare la gestione «particolare» – come viene definita – dell’errore. Sono chiamati «incident reporting», cioè l’analisi dell’errore per arrivare a adottare una strategia migliore: un sistema sicuramente positivo se non fosse per il fatto che in un’occasione il verbale contenente l’errore, «in questo caso senza conseguenze per la paziente» — rammenta un’ostetrica — «sarebbe stato affisso in bacheca in guardiola con il nome del responsabile».
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«Tu chi c.. sei per dirmi quello che devo fare?». Un’ostetrica evidenzia, nel suo racconto, i presunti atteggiamenti aggressivi da parte della dottoressa Mereu che avrebbe preso d’assalto una professionista «incalzandola fisicamente e in modo aggressivo tanto che è stata costretta a indietreggiare». Un’altra infermiera ricorda invece che, assunta da poco, sarebbe stata aggredita dalla Mereu solo per aver sollecitato un intervento del medico perché una paziente si stava sentendo male accusando problemi di vomito. «Dopo circa un’ora per la terza volta avvisavo la dottoressa della paziente, a quel punto mi afferrava per il braccio e mi trascinava verso la stanza… Mi sono sentita uno schifo e ci sono rimasta molto male». Sono diverse le testimonianze che parlano di incontri sporadici con l’ex primario e di scontri aspri con Mereu. Una professionista racconta che a giugno del 2020 si sarebbe rivolta a Tateo per segnalare il «comportamento della dottoressa Mereu». Ma lui sarebbe andato su tutte le furie. «Mi aggrediva rispondendomi che queste cose non gli interessavano e se avevo qualcosa da dire dovevo rivolgermi ai giudici e ai tribunali concludendo dicendomi: “lei non vale niente”. Questo episodio mi ha ferita molto». La professionista – che si commuove nel riportare l’episodio, spiega il “Corriere” – ricorda bene anche l’ora del colloquio. «Erano le 10». Un’ora più tardi infatti sarebbe stata accusata da Mereu di aver parlato male di lei: «Se continua a parlare così di me la denuncio per diffamazione».
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Il clima pesante che regnava all’interno del reparto e una intransigenza tanto estrema tanto da indurre nel personale «una sorta di paura di essere ancora ripresa», riferisce il “Corriere” sarebbero stati più volte segnalati alla direzione dell’azienda e anche alla consigliera di fiducia (che dovrebbe prevenire, gestire e aiutare a risolvere i casi di mobbing). Si parla anche di una conversazione registrata su nastro, ma il problema non sarebbe mai stato affrontato e men che meno risolto. Un’infermiera avrebbe inviato un primo messaggio di posta elettronica alla consigliera di fiducia in data 12 gennaio 2018. «Vorrei parlarle della situazione ormai insostenibile con una dottoressa di ginecologia (si riferisce a Mereu). Ogni volta che mi ritrovo a lavorare con lei mi mette in imbarazzo davanti a tutti e mi denigra pur svolgendo il mio lavoro nel migliore dei modi». E la mail continua: «Ormai è da due anni che sostengo questa situazione, spero che tenga in considerazione la mia richiesta di aiuto». L’infermiera chiede un incontro, ma non riceve alcuna risposta. Il primo febbraio scrive allora la seconda mail: «Vi rimando un’email a cui non ho ricevuto alcuna risposta, sperando in un vostro contatto». Ma anche in quel caso il messaggio cade nel silenzio.