Non i numeri dei contagiati, ma i ricoveri ospedalieri: secondo alcuni esperti – citati dal Corriere della Sera – sono questi ultimi i dati da tenere in considerazione per valutare quest’ultima ondata di contagi.
Concentrarsi sui ricoveri, lasciar perdere (almeno in parte) i numeri dei contagiati come riferimento dell’andamento della pandemia. Secondo un articolo pubblicato sul Corriere della Sera sembrerebbe essere questa la nuova tendenza che sta emergendo nell’ambiente scientifico rispetto i metodi di valutazione dell’andamento pandemico. Resta fondamentale, ovviamente, la raccolta dei dati: ma in questa fase, oggettivamente nuova, è necessario cambiare la comunicazione istituzionale e mediatica.
Sono ormai quasi due anni che, ogni giorno o quasi, viene divulgato il bollettino quotidiano con il conteggio dei nuovi casi Covid: attualmente positivi, ricoveri ospedalieri, i decessi, il tasso di positività. Tutti ricordiamo, nei primi mesi della pandemia, la conferenza stampa delle 17 che in diretta televisiva comunicava i numeri drammatici di ricoveri e decessi. Come scordare i quasi mille morti il 3 dicembre 2020? Ma la situazione oggi è diversa.
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Con l’arrivo della variante Omicron, molto contagiosa anche nei confronti dei vaccinati, il numero delle infezioni giornaliere è aumentato in maniera esponenziale (200mila oggi). Un anno fa i contagi erano stati 15.378, con 649 i morti. Tra il 27 dicembre e il 2 gennaio in Italia sono stati registrati 680 mila nuovi casi di coronavirus: tre volte tanto rispetto alla settimana precedente. I dati sui ricoverati e sui decessi invece, pur crescendo in maniera costante, sono ancora lontani dai picchi toccati l’anno scorso di questi tempi, soprattutto se rapportati al numero dei contagi. Un risultato attribuibile, probabilmente, ai vaccini.
E dunque appare lecita la domanda: a fronte di dati che raccontano una storia diversa rispetto a quella che abbiamo conosciuto fino ad oggi, e cioè contagi e ricoveri che aumentavano proporzionalmente, non sarebbe necessario cambiare metodo di analisi? Se i ricoveri non aumentano allo stesso ritmo dei contagi, che sono per lo più relativi a casi asintomatici o con lievissimi sintomi, non dovrebbero essere proprio gli ingressi in ospedale a definire il livello d’intensità della pandemia?
Fauci (Usa): “Più importante contare i ricoveri”
Il consulente per la pandemia alla Casa Bianca, l’immunologo Antony Fauci, nel corso di una intervista, ha dichiarato che con molte infezioni che causano pochi o nessun sintomo «è molto più rilevante concentrarsi sui ricoveri rispetto al numero totale dei casi». Anche negli Stati Uniti i numeri sono in crescita quasi esponenziali: i contagi di Covid-19 sono quadruplicati in una settimana e il 5 gennaio hanno raggiunto la cifra record di un milione di casi in 24 ore. 103mila le persone ricoverate in ospedale.
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Anche per il dottor Wafaa El-Sadr, direttore dell’ICAP, importante centro sanitario presso la Columbia University, «il conteggio dei casi non sembra essere il numero più importante da tenere in considerazione in questo momento, mentre sarebbe più opportuno concentrarsi sulla prevenzione di malattia, disabilità e morte causate dal Covid in un contesto post vaccinazione, e quindi contare quelli». Senza dimenticare che il numero di infezioni in tutto il mondo è sottostimato dal momento che sono conteggiati solo i casi confermati con test antigenici e molecolari (sono esclusi i test fai da te) e non rientrano nei conteggi i molti asintomatici che proprio perché non hanno sintomi non si sottopongono a tampone.
Il parere degli esperti italiani: opinioni contrastanti
Meno univoca la posizione della comunità scientifica italiana: «Se puntiamo tutto su ricoveri e decessi — spiega il virologo dell’Università di Milano Fabrizio Pregliasco — rischiamo di rimanere indietro rispetto all’andamento dell’epidemia perché tra quando una persona si contagia e quando sviluppa sintomi passano fra i 3 e i 5 giorni; tra l’insorgere dei sintomi e il risultato dei tamponi ne passano altri 2-3. Quindi quel contagio ci sta dicendo come si stava muovendo l’epidemia una settimana prima. Con il dato dei ricoveri vediamo invece come si stava evolvendo l’epidemia 10-15 giorni prima. Se rinunciamo a conoscere il numero di contagi rinunciamo anche a capire cosa succederà a distanza di giorni rischiando di arrivare impreparati di fronte a uno tsunami di ricoveri».
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La fase attuale non è ancora emergenziale, sul fronte dei ricoveri, perchè i contagi sono riferiti per la maggior parte a persone giovani: l’età più colpita è tra i 10 e i 29 anni, gli infetti mostrano sintomi lievissimi o del tutto assenti. Ma da qualche settimane si registra un incremento progressivo dei contagi anche tra gli over 60, ovviamente più a rischio di ricovero. Senza un conteggio analitico dei nuovi contagi suddivisi per fascia di età, sarebbe più difficile produrre previsioni sull’andamento pandemico nelle prossime settimane: «È logico che non possiamo smettere di contare il numero di persone positive , questo è uno strumento epidemiologico irrinunciabile per gli addetti ai lavori» argomenta l’epidemiologo Paolo Bonanni, professore ordinario di Igiene all’Università di Firenze. Ma il rapporto contagi/ricoveri può essere fuorviante anche nel fare previsoni ospedaliere: «Il dato assoluto dei contagi oggi è fuorviante e non c’è corrispondenza tra il numero assoluto di infezioni e quello che succederà in termini di ospedalizzazioni e morti» conclude Bonanni.
Siamo in una nuova fase
Il dato su cui sono tutti d’accordo è che siamo certamente in una nuova fase: «Ed è la comunicazione al pubblico che deve cambiare» aggiunge l’immunologa Antonella Viola. «Quello che conta è la situazione negli ospedali , i ricoverati sono per la maggior parte non vaccinati o pazienti in attesa del richiamo. Il dato assoluto dei contagi, se pubblicato senza adeguato contesto, rischia soltanto di spaventare e scoraggiare; le persone potrebbero addirittura essere tentate di pensare che i vaccini non servono a niente, mentre al contrario proteggono bene dalla malattia severa. Andrebbero comunicati solo i dati dei ricoveri e dei decessi, specificando quanti sono vaccinati e quanti no. Non siamo più in una fase emergenziale in cui si deve fare ricadere l’ansia e la responsabilità sui cittadini. È una scelta politica decidere di entrare nella normale gestione della pandemia. È giusto spiegare le regole, ma con il virus dobbiamo convivere e abbiamo gli strumenti per farlo».
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Anche per Bonanni è necessario raccontare in modo diverso è più contestuale alla fase il dato assoluto dei contagi: «Il balletto quotidiano dei nuovi positivi ha un effetto deleterio sulla psiche delle persone . Mi sembra invece più utile divulgare il dato sul tasso di positività perché è quello meno soggetto alle oscillazioni quotidiane ed eventualmente, anche se è un po’ ritardato rispetto a quando viene raccolto, si può divulgare anche l’indice di contagio Rt (quante persone possono essere contagiate da una sola persona in media e in un certo periodo di tempo in relazione, però, all’efficacia delle misure restrittive, ndr). L’indice Rt ci dice come sta andando l’epidemia: sopra 1 vuol dire che siamo in una fase di espansione epidemica tanto più veloce quanto più il valore è sopra uno. Se invece siamo sotto 1 significa che siamo in fase di regresso».
«Anche il dato delle ospedalizzazioni — conclude il ragionamento Pregliasco — andrebbe migliorato. Con Omicron vediamo sempre più pazienti che risultano positivi al tampone di ingresso in ospedale, dove arrivano magari per un incidente stradale o per un infarto, e per questo vengono ricoverati in reparti Covid anche se asintomatici. Nonostante ciò rientrano nel conteggio dei ricoverati per Covid: ma il dato andrebbe scorporato per non avere una cifra sovrastimata».