Nessun interesse verso la storia dell’assassino afroamericano. Ma cosa sarebbe accaduto se all’inverso, il killer fosse stato bianco e la vittima un nero? Ecco i rischi di un nuovo tipo di “giornalismo militante”
È membro di una delle più violente gang di New York Vincent Pinkney, l’assassino del ricercatore italiano Davide Giri. Era pregiudicato, già arrestato numerose volte per crimini violenti e condannato a una pena leggera, rilasciato prima di scontarla. Era libero nonostante si sospettasse che fosse il responsabile di una recente aggressione, come riporta Il Corriere della Sera. Si sa quasi tutto del killer di Giri, ucciso brutalmente mentre tornava alla Columbia University dopo una partita di calcio. Eppure, il New York Times, giornale di riferimento per l’intera nazione e per la metropoli, non riporta nessuna di queste informazioni, anzi sembrerebbe essere reticente di fronte a un dramma occorso proprio a Manhattan.
Le info date dal quotidiano newyorkese su questa storia sono molte poche: i dati personali del killer, qualche breve testimonianza dei colleghi di uno studio, una dichiarazione rilasciata dal rettore dell Columbia University per un articolo ricco di lacune. All’articolo non viene dato alcun risalto, anzi è confinato nelle pagine locali e dopo la prima versione, nessun aggiornamento.
Nessuna info sul killer che avrebbe potuto commettere una strage. Questo perché, dopo aver accoltellato il ricercatore alle 22:55 di giovedì, 15 minuti dopo feriva anche un turista italiano, Roberto Malaspina, non lontano dalla Morning side Drive e alcuni minuti più tardi cercava di aggredire una coppia a Central Park.
Quello che ci si chiede è: come mai i lettori del New York Times non sanno niente, di Pikney tranne che età e cognome? L’interesse del giornale e la forza investigativa sarebbero stati differenti a parti inverse. Ossia, se un bianco avesse ucciso un afroamericano o se quel bianco avesse fatto parte di qualche banda che promuove e mette in atto violenza, come una milizia di destra, ad esempio.
Il dramma avrebbe avuto ampio spazio in prima pagina, un team di giornalisti sarebbe stato messo in campo per investigare l’ambiente del killer, la sua storia e le ragioni del delitto. Pinkney vive a washington Heights, in una zona di Harlem. La polizia lo ha individuato come membri dell’Ebk, Everybody Killas («Uccidiamo tutti»), gang che ha sede nel quartiere di Queens.
La gang ha contatti fino in California e vive di narcotraffico. Pinkney era finito in manette ben 11 volte dal 2012 con l’accusa di crimini gravi e nel 2018 era finito in carcere per 4 anni per aver preso prte a una violenta aggressione di branco, ma lo liberarono dopo due anni.
Eppure, queste notizie, non ci sono sul New York Times. Per trovarle bisogna guardare siti di tv locali, o sul New York Post, che è un quotidiano populista. Il New York Times ha optato per una linea reticente che sfocia nell’autocensura, coerente con la linea editoriale adottata negli ultimi anni. I canoni del giornalismo statunitense hanno subìto uno stravolgimento, soprattutto negli anni di Trump, dove nelle redazioni dei media progressisti è diventato un orgoglio un tipo di «giornalismo resistenziale».
Dopo il delitto dell’afroamericano Floyd commesso da un agente bianco il 25 maggio 2020 a Minneapolis, i principali giornali hanno condiviso slogan come «tagliamo fondi alla polizia». Saccheggi e violenze occorsi con la scusa dell’antirazzismo sono stati sminuiti. Il New York Times, allora, aveva promosso The 1619 Project, che rilegge tutta la storia Usa come derivazione dello schiavismo che influenzerebbe tuttora ogni istituzione, tutto il sistema legale, cultura e scuola.
Questo pensiero ha portato all’allontanamento di diversi giornalisti non allineati con il radicalismo Black Lives Matter. Qualche voce che dissente resiste in modo isolato, come l’opinionista Bret Stephens che fino a una settimana fa avvertiva che in passato, quando la sinistra Usa ha avuto un atteggiamento lassista in merito ai crimini, ha favorito l’avanzata della destra.
A New York c’è stato un aumento dei delitti pari al 42% dal 2019. «Le vite dei neri contano» è un genere di slogan che per Black Lives Matter sembra attuarsi soltanto quando i killer sono bianchi e razzisti, mentre la maggior parte delle morti violente, tra i neri come tra gli ispanici, sembrano passare in secondo piano perché i killer sono dello stesso gruppo etnico. La reticenza del Times comprende pure la questione scarcerazione facile. Il giornale sostiene le procure «progressiste» che liberano anche criminali pericolosi, che costituiscono una vera e propria minaccia per la comunità.
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Dopo la morte di Giri, questa linea editoriale era confermata con un attacco a procuratori che non procedono in modo veloce allo svuotamento delle carceri. Certo, un’attenzione differente da parte dei media non servirebbe ad alleviare il dolore per la morte di Giri, ma quanto accaduto fa da specchio al “nuovo giornalismo”, militante e influenzato da un’ideologia.