Presentato alla settantottesima mostra del cinema di Venezia, The last duel esce definitivamente nelle sale di tutto il mondo e, come per la critica, polarizza le opinioni del pubblico generalista.
Ridley Scott torna sul grande schermo con una pellicola in costume, tratta da eventi realmente accaduti alla fine del quattordicesimo secolo. La sceneggiatura vede, al fianco di Nicole Holofcener, ricongiungersi il binomio formato da Ben Affleck e Matt Damon, già autori dell’irresistibile Good Will Hunting nel lontano 1997. La vicenda è quella del cavaliere Jean de Carrouges, interpretato da Matt Damon, che accuserà lo scudiero Jaques Le Gris, uno splendido Adam Driver, di aver violentato sua moglie Marguerite. Accusa che, dopo una superficiale e divertita analisi del re Carlo VI, avrà esito in quello che è stato l’ultimo duello di Dio della storia francese: un confronto in cui le ragioni dell’accusa e della difesa vengono interamente rimesse al giudizio divino che, consapevole della realtà dei fatti, favorirà in combattimento colui che afferma il vero.
La caratteristica più evidente del film, è forse quella che ha diviso più radicalmente le opinioni, ma l’unica che lo renda davvero un prodotto irresistibile da analizzare e rivedere con perizia. Si tratta di una tripla narrazione, dove lo stesso evento viene messo in scena tre volte, attraverso tre punti di vista diversi, uno per ogni protagonista. Scelta rischiosa, che tuttavia, apre a scenari cinematograficamente di grande interesse. Nel riproporre tre volte il medesimo lasso di tempo allo spettatore, la sceneggiatura ci mostra, non soltanto eventi inediti ad ogni nuova prospettiva, ma soprattutto all’interno di uno stesso evento, elementi che variano sensibilmente, a rappresentare, in maniera più concreta che mai, la mutevole visione di un singolo avvenimento da parte di più individui. A variare non sarà solo il contenuto degli eventi, ma anche e soprattutto la forma con cui Scott ce li mostrerà, grazie ad una regia ed un montaggio che si adatteranno alla cangiante prospettiva dei protagonisti: dove nella versione di Jean de Carrouges avevamo un primo piano, in quella di Le Gris potremmo trovarci un campo medio, facendo sentire in maniera diretta e poderosa come la sola regia, all’interno di un prodotto audiovisivo, sia un potente mezzo ai fini di una meticolosa e raffinata gestione delle emozioni. Sostanzialmente una lezione di cinema che, senza dubbio, vale da sola il prezzo del biglietto.
Questa affascinante meccanica permette allo spettatore di riflettere su come la realtà, in teoria unica e immutabile, sia sempre profondamente liquida e flessibile alle molteplici soggettività e la naturale assenza di dispositivi per immortalare gli eventi, potesse facilmente significare la morte di un innocente, o la sgradevole impunità di uno stupratore.
Il Mee Too nel medioevo?
Tre modi di percepire la vicenda, ma solo uno tragicamente lucido e attinente alla cruda realtà, quello della moglie splendidamente interpretata da Jodie Comer. Un’impotente vittima che, sfidando ottuse convenzioni e pratiche amaramente fossilizzate, metterà in gioco la sua stessa vita, in nome di un’aleatoria giustizia, ancora affidata a meri giochi di potere e annoiati sovrani. Il movimento Me Too sembra piombare, grazie al coraggio di Marguerite de Carrouges, nei bui silenzi di un medioevo, dove persino la tua migliore amica avrebbe dubitato della tua accusa, dove anche la madre del tuo stesso marito ti avrebbe invitato a tacere e dove il dolore di una donna faceva solo parte del patriarcale disegno del mondo.
Un trio affiatato
A rendere il tutto ancor più godibile, una magnetica alchimia tra i personaggi principali, i quali rappresentano su schermo un’affascinante creatura, dalle innumerevoli sfaccettature, che, grazie alle diverse angolazioni con cui ammirarla, mostrerà per intero l’invidiabile cura in scrittura. Accanto a loro un fantastico Ben Affleck, nei panni del cugino del re, principale causa di una raffinata ironia generale del film, ma anche di più rozzi divertimenti.
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La confezione poi è, come al solito per il regista britannico, semplicemente perfetta: oltre alle sublimi e complesse soluzioni precedentemente citate, la regia non conosce difetti e più in generale fotografia, scenografia, costumi e sound design si collocano al vertice, sia negli interni, molto presenti, che nei combattimenti in esterna, raggiungendo l’apice nel duello finale, ricco di suspence e squisitamente coreografato.
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Le due ore e quaranta, necessarie a veder scorrere i titoli di coda, hanno infastidito gran parte del pubblico, il quale ha sofferto principalmente di dover rivivere, per ben tre volte, il medesimo avvenimento. Disagio in parte comprensibile ma poco condivisibile, poiché ad uno sguardo minimamente più attento e curioso, questa apparirà come una soluzione brillante, capace di dare freschezza e attualità alla narrazione, ma soprattutto di caricare emotivamente un finale innegabilmente epico. Ridley Scott, in risposta alle critiche della sua recente produzione, porta in sala uno splendido film, attuale nei contenuti, interessante nella forma, tanto epico nelle battaglie, quanto intimo nel confronto dei suoi stimolanti interpreti.