Il massacro del Circeo, uno dei delitti più efferati e noti degli anni 70, recentemente divenuto anche un film ‘La scuola cattolica’, tratto dall’omonimo romanzo vincitore del Premio Strega del 2016 scritto da Edoardo Albinati. Cosa accadde in quella Villa, il 29 e il 30 settembre 1975? A poco più di 100 chilometri da Roma, si consumò uno dei fatti più sconvolgenti della storia d’Italia.
Le due vittime, due giovani amiche di 19 e 17 anni, Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, vennero attirate con l’inganno da Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira, in una villa di proprietà di Ghira. La scusa utilizzata, quella più ovvia: una festa tra ragazzi. Le giovani vennero torturate, stuprate, insultate, una di loro, Rosaria, venne uccisa.
Gianni Guido, Andrea Ghira e Angelo Izzo, erano tre ragazzi di agiate famiglie romane. Ghira 22enne figlio dell’imprenditore edile ed ex campione olimpico di pallanuoto, Aldo Ghira. Izzo 20enne studente di medicina, Guido 19enne studente di architettura. Ghira e Izzo non erano estranei al mondo del crimine, insieme avevano infatti compiuto, nel 1973, una rapina a mano armata che era costata loro 20 mesi di reclusione al carcere di Rebibbia. Izzo, un anno dopo, aveva anche violentato con alcuni amici, due ragazzine e venne quindi condannato a due anni e mezzo di reclusione, mai scontata per via della sospensione della pena.
La storia di due ragazze vittime della “Roma bene”
Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, provenivano dal quartiere popolare romano della Montagnola. Rosaria era una barista, mentre Donatella una studentessa. Conobbero due dei tre ragazzi solo pochi giorni prima dei fatti, tramite un amico, estraneo al crimine. Il ragazzo le invitò al bar della torre del Fungo dell’EUR e presentò loro Izzo e Guido. Le due giovani si fidarono fin da subito dei ragazzi, che apparivano come dei giovani per bene, garbati e dal comportamento irreprensibile. Fu proprio in quell’occasione che proposero alle due ragazze, e ad un’altra amica, che all’ultimo decise di non andare all’appuntamento, di incontrarsi per una festa a casa dell’amico comune a Lavino. Il 29 settembre alle 18.20, le ragazze arrivarono a Villa Moresca, ubicata sul promontorio del Circeo, una casa di proprietà della famiglia Ghira, che non avevano ancora incontrato. I ragazzi, spiegarono a Rosaria e Donatella, che lì avrebbero incontrato un altro amico e poi sarebbero andati insieme a Lavinio. All’improvviso, Izzo e Guido iniziarono a molestarle, con esplicite avance sessuali che le giovani non gradirono affatto e tentarono di respingere. Fu quello l’inizio dell’incubo.
La testimonianza di Donatella al processo
«Quando siamo arrivate nella villa del Circeo, ci hanno fatte subito entrare in casa. Ci hanno puntato una pistola contro, sghignazzando: “Ecco la festa!”. Poi ci hanno chiuso in un bagno minuscolo, senz’aria. Ci hanno spogliate, tolto gli anelli, i documenti, tutto quello che avrebbe potuto renderci identificabili. Sapevano benissimo cosa stavano facendo. Era tutto preparato. I sacchi in cui ci avrebbero messe, da morte, ce li hanno mostrati subito. Izzo voleva essere protagonista, al centro dell’attenzione. Ripeteva in continuazione che lui era capace di uccidere mentre Ghira faceva il capo del gruppo, sosteneva di far parte della banda dei marsigliesi, di essere molto amico del loro boss, Jacques Berenguer. Anzi, diceva che era proprio per ordine dei marsigliesi che ci avevano catturate. Izzo poi diceva che ci avrebbe ammazzate. L’ora e il modo non erano stati decisi, ma dovevamo morire. “Da qui non uscirete vive” ripeteva con il suo sorrisetto malvagio. Recitava un copione».
Vennero violentate per più di un giorno e una notte. Seviziate e insultate dai tre. Nel bel mezzo del massacro, Guido si assentò per andare a cena con la famiglia a Roma, per poi tornare e riprendere la carneficina. La ragazze vennero drogate, Rosaria trascinata in bagno, picchiata e uccisa, affogata nella vasca da bagno. I tre tentarono poi di strangolare Donatella con una cintura, la ragazza riuscì a fuggire verso un telefono in un momento di svista dei tre aggressori, ma venne scoperta e picchiata con una spranga di ferro, fu a quel punto che la giovane si finse morta e venne così caricata in macchina, una FIAT 127, insieme al corpo di Rosaria. I tre partirono per Roma, intenzionati a liberarsi dei due cadaveri. Mentre si dirigevano verso la Capitale, ascoltavano musica e ridevano, si prendevano gioco delle due povere giovani.
Una volta uccisa Rosaria, i tre tornarono da Donatella
«Poi sono tornati da me. Ho capito che l’unica, minuscola speranza che mi rimaneva era fingermi morta. Gianni Guido mi aveva fatto sdraiare per terra, mi aveva messo un piede sul petto e legato una cinghia attorno al collo. Ha tirato così forte che alla fine la fibbia si è rotta. Allora ha cominciato a infierire con la spranga e con i calci in testa. Izzo si esaltava nel dare ordini. Provava gusto nel vedermi soffrire. A un certo punto, ho sentito una voce che diceva: “Questa non muore mai”. Allora ho deciso di stare immobile, come un animale paralizzato di fronte al pericolo. Sono rimasta così ferma che Izzo e gli altri due hanno pensato di avermi uccisa. Mi colpivano e io non fiatavo: una morta non prova dolore».
«Zitti, che a bordo ci sono due morte»
Arrivati vicino alla casa di Guido, i tre decisero di andare a cena in un ristorante, dove vennero coinvolti in una rissa con un paio di giovani militanti comunisti. La vettura con le due ragazze, credute entrambe morte, rimase dunque in viale Pola, nel quartiere Trieste. Donatella a quel punto, una volta compreso che i tre si erano allontanati, iniziò a gridare e a prendere a pugni il bagagliaio, attirando l’attenzione alle 22.50 di un metronotte, che allertò i carabinieri con il seguente messaggio:
«Cigno, cigno… c’è un gatto che miagola dentro una 127 in viale Pola»
Antonio Monteforte, un fotoreporter ascoltò il messaggio e si recò in via Pola in tempo per fotografare la liberazione di Donatella. La giovane sopravvissuta venne portata in ospedale dove le vennero diagnosticate delle gravi ferite, la frattura del naso e una prognosi di oltre 30 giorni. Naturalmente non si riprese mai dai danni psicologici che questo terribile evento le cagionò. Donatella morì a Roma il 30 dicembre 2005 a 47 anni, per un tumore al seno, ancora fortemente sconvolta per la violenza subita.
Guido e Izzo vennero arrestati dopo poche ore, Ghira invece, dopo una soffiata, si rese latitante. Alcuni mesi dopo scrisse una lettera ai suoi amici, questa venne intercettata dagli inquirenti. Nella lettera, Ghira confortava i due galeotti dicendo loro che sarebbero usciti presto “per buona condotta” e minacciava di uccidere Donatella se avesse testimoniato contro di loro.
Il processo
Grazie alle deposizioni di Donatella, i carabinieri riuscirono a ricostruire quanto accaduto nella villa. La ragazza si costituì parte civile contro i suoi aguzzini, venne rappresentata dall’avvocato Tina Lagostena Bassi. Con lei anche diverse associazioni femministe si costituirono parte civile al processo.
La sentenza in primo grado arrivò il 29 luglio 1976 con l’ergastolo senza alcuna attenuante per Izzo e Guido ed in contumacia anche per Ghira che nel frattempo era riuscito a fuggire in Spagna sotto il falso nome di Massimo Testa de Andres, per arruolarsi nel Tercio (la Legione Straniera Spagnola) da cui venne poi espulso per abuso di stupefacenti nel 1994. Morì di overdose a Melilla nel 1994. La sua reale identità venne intuita nel 2005, quell’anno il cadavere venne riesumato e identificato tramite un esame del DNA. Donatella ed altri parenti delle vittime, non accettarono come veritiero il risultato dell’esame del DNA e sostennero che le ossa fossero di un parente di Ghira. Su questa base infatti vennero, nel corso degli anni, dichiarati diversi suoi avvistamenti: in Kenya, in Brasile, in Sudafrica e perfino a Tor Pignattara, un quartiere popolare romano. Nel frattempo, i due amici in carcere, avevano tentato l’evasione prendendo in ostaggio una guardia carceraria, fallendo miseramente.
Il 28 ottobre 1980, venne modificata la sentenza in appello per Guido e ridotta la sua condanna a 30 anni a seguito di una sua dichiarazione di pentimento e per via dell’accettazione, da parte della famiglia della vittima, di un risarcimento. Guido evase dal carcere di San Gimignano nel 1981, scappò a Buenos Aires dove venne arrestato due anni dopo. Nel 1985 riuscì nuovamente a fuggire, e venne ripreso nel 1994 a Panama.
Nonostante la condanna pendente, nel novembre del 2004 venne concessa a Izzo la semilibertà. Il 28 aprile 2005 rapì e uccise insieme ad un complice, due donne: Maria Carmela Linciano di 49 anni e Valentina Maiorano di 14 anni, moglie e figlia di Giovanni Maiorano, pentito della Sacra Corona Unita che Izzo conobbe in carcere a Campobasso. Questo nuovo fatto generò un’enorme ondata di polemiche in Italia. Izzo, il 12 gennaio del 2007 venne condannato all’ergastolo per il duplice omicidio, condanna confermata in appello. Guido, l’11 aprile del 2008, venne affidato ai servizi sociali dopo 14 anni di carcere. Il 25 agosto 2009, grazie ad uno sconto della pena per via dell’indulto, venne scarcerato. La sorella di Rosaria, Letizia, non giudicò sufficiente il regime di detenzione dell’uomo e reagì con profonda indignazione alla notizia della scarcerazione di quest’ultimo.