Nonostante le condanne che hanno portato ad identificare gli esecutori materiali di una strage costata la vita a cinque persone, i magistrati di Firenze sono convinti che vi sia ancora molto altro da scoprire.
Perquisizioni tra Roma, Palermo e Rovigo nella giornata di oggi 27 Ottobre 2021.
Controlli delle forze dell’ordine nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze.
Non si fermano le indagini della Procura sulle stragi mafiose del 1993. Le prime indiscrezioni parlano di perquisizioni portate avanti nella mattinata di oggi nelle abitazioni di familiari o esponenti direttamente riconducibili alla famiglia Graviano. Un cognome che chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la mafia siciliana, conosce molto bene. Si evince inoltre che si tratta di controlli avvenuti per lo stesso procedimento giudiziario in cui risultano tuttora indagati anche Silvio Berlusconi e Marcello dell’Utri. Il fascicolo è stato riaperto nel 2017, quando i magistrati intercettarono il boss Giuseppe Graviano mentre lasciava intendere al telefono che Berlusconi potesse essere una sorta di mandante occulto di quei terribili attentati. Il quotidiano La Repubblica è poi riuscito a raccogliere qualche dettaglio aggiuntivo: gli inquirenti stanno cercando riscontro e prove su alcune dichiarazioni che Graviano (che non è mai diventato un collaboratore di giustizia) ha deciso di rilasciare volontariamente ai magistrati fiorentini.
L’indagine riguarda uno dei periodi più bui della storiografia italiana recente: gli attentati del 1993
Il 27 Luglio del 1993 in Via Palestro, a due passi dal Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, viene segnalata un’auto, una Fiat Panda parcheggiata da cui fuoriesce una nuvola biancastra che non può che non preoccupare. Sul luogo intervengono i Vigili del fuoco: insieme a loro Alessandro Ferrari, un vigile urbano. Pochi metri più in là, un immigrato marocchino di nome Moussafir Driss dormiva su una panchina.
La Fiat Panda esplode pochi minuti dopo uccidendoli tutti. Resteranno ferite anche altre dodici persone che si trovavano nelle vicinanze.
Quaranta minuti dopo, molti abitanti di Roma si svegliano di colpo: il boato della carica pentrite e T4 lo sentono tutti coloro che vivono o si trovano vicino alla Basilica di San Giovanni Laterano. Passa pochissimo tempo e a pochi metri dal Campidoglio e i Fori Imperiali, un’altra bomba. Le esplosioni avvengono a quattro minuti di distanza l’una dall’altra, alcuni feriti ma per fortuna nessuna vittima. Il giorno successivo Gaspare Spatuzza spedisce due lettere anonime alle redazione del Messaggero e del Corriere della Sera. Una missiva firmata Falange Armata, un’organizzazione che minaccia nuovi attentati, nuove vittime innocenti da consegnare all’opinione pubblica.
Cosa c’entrano queste due bombe con la Procura di Firenze o le perquisizioni avvenute nella giornata di oggi? Gli attentati tra Roma e Firenze non sono stati i primi che nel 93 hanno cambiato per sempre la storia del nostro paese.
Era già accaduto qualche mese prima.
Il 23 Maggio del 1993 tre uomini arrivano a Prato.
Ad accoglierli e ospitarli nel suo appartamento Antonino Messana, che però li riceve controvoglia: non li voleva in casa e si era rifiutato più volte di ospitarli. Poi però erano arrivate le minacce di due mafiosi di un certo peso: Gioacchino Calabrò, a capo della famiglia di Castellammare di Golfo e Giorgio Pizzo, un esponente appartenente al clan di Brancaccio. Con loro non si scherza, e Messana è costretto a cedere. Tra i suoi ospiti c’è Gaspare Spatuzza. Gli altri due invece si chiamano Cosimo Lo Nigro e Francesco Giuliano. Qualche giorno dopo i tre si dirigono in una frazione di Prato, Galciana. Raggiungono un mafioso, Vincenzo Carrà, che gli consegna dell’esplosivo che i tre portano subito nel garage di Messana. Il 26 Maggio 1993 Spatuzza e Giuliano rubano una macchina, una Fiat Fiorino, la portano in garage e la riempiono di esplosivo. Completata l’operazione, mettono in moto l’auto e la trasportano fino a via Georgofili, a pochissimi metri di distanza dal Museo degli Uffizi. La bomba esplode poco dopo, e la deflagrazione è così potente che la Torre dei Pulci crolla di colpo uccidendo cinque persone.
Una famiglia intera viene drammaticamente trucidata: Fabrizio Nencioni e Angela fiume con le rispettive figlie, Nadia di nove e Caterina, arrivata al mondo da cinquanta giorni. Insieme a loro muore anche Dario Capolicchio, uno studente universitario di ventidue anni.
Quaranta persone resteranno ferite in una delle pagine più drammatiche della storia di Firenze. Il giorno successivo, mentre la nazione intera si unisce al dolore dei fiorentini, la redazione Ansa riceve due chiamate anonime: si tratta di una persona che rivendica la paternità degli attentati, e anche stavolta, il riferimento è ad un gruppo che si fa chiamare Falange Armata. Quattro anni dopo, nel 1998, arriverà una sentenza che condannerà coloro che sono considerati gli esecutori materiali di questa stragi: Francesco Giuliano, Vincenzo Ferro, Giuseppe Barranca, Gioacchino Calabrò, Antonino Mangano, Giorgi Pizzo, Cosimo Lo Nigro, Vincenzo Carrà e naturalmente Gaspare Spatuzza. Proprio quest’ultimo nel 2008 decide di pentirsi, di collaborare con la giustizia e il suo nome diventa ben presto conosciutissimo all’opinione pubblica per un semplice motivo. Le sue dichiarazioni sono esplosive quanto le bombe che ha piazzato uccidendo degli innocenti e rovinando per sempre la vita alle loro famiglie. Pur non raggiungendo l’importanza storica di Buscetta e delle sue rivelazioni, Spatuzza è probabilmente il pentito di mafia più importante a cui la giustizia italiana ha avuto accesso.
Ma la strage di via Georgofili non è solo il dramma a sé stante della malvagità di uomini che non ci hanno pensato due volte a uccidere in un modo così cruento degli innocenti.
Le indagini dei magistrati fiorentini, nel 2016 porteranno a scoperchiare un vaso di pandora molto più grande, che colpirà al cuore tanti esponenti della politica di quegli anni.
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Dopo le stragi, inizia una trattativa tra alcuni rappresentanti dello Stato e la Mafia, un tavolo negoziale sì che sembra dar ragione alla strategia di Totò Riina. Almeno inizialmente, considerato che sono in tanti ad essere invece concordi sul fatto che gli attentati del 93 segnano invece l’inizio della sua disfatta, di una linea fin troppo aggressiva e spietata che inizierà a mettere in dubbio la sua leadership all’interno di Cosa Nostra, per deviare su un tale di nome Bernardo provenzano detto Binnu, da sempre considerato il rappresentante dell’ala moderata del clan di Riina, e suo braccio destro dal quando erano ancora dei ragazzi. Una trattativa, dicono i magistrati “indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des” e “l’iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia”.
“[…]dei termini e dello stato raggiunto dalla c.d trattativa, la cui esistenza, comprovata dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi, è però logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista: il ricatto non avrebbe difatti senso alcuno se non fosse scaturita la percezione e la riconoscibilità degli obbiettivi verso la presunta controparte”
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