Il nuovo governo dei talebani sembra tutt’altro che solido. Secondo indiscrezioni della Bbc, nei giorni scorsi al Palazzo presidenziale si sarebbe consumato un violento scontro tra principali esponenti del governo, a loro volta espressione di due volti diversi dei talebani: da un lato Ghani Baradar, che ha firmato gli accordi di Doha e che sostiene l’esigenza di un approccio più diplomatico. Dall’altro il ministro per i Rifiugiati Khalil ur-Rahman Haqqani, membro della rete legata ad Al Qaida. Baradar sembrerebbe uscito fuori dai radar da diversi giorni. Il governo talebano assicura che è ancora in vita.
I talebani non sono un gruppo compatto, sono attraversati da diverse correnti, diverse famiglie, diversi modi di interpretare la gestione del nuovo governo alla guida dell’Afghanistan. E questo lo sapevamo. Sapevamo che la scelta dei ministri sarebbe stata fondamentale per capire quale volto, tra i tanti, avrebbero assunto i talebani in questo nuovo regime, a vent’anni di distanza. Inizialmente lo sforzo è stato quello di garantire un’apparenza di diplomazia, promettendo inclusività, rispetto delle donne, addirittura preoccupazione per il cambiamento climatico. Sono andati avanti i talebani più “eruditi”, quelli che hanno studiato all’estero e possono sfoggiare il loro accento di Oxford. Nelle province, intanto, si consumavano i soprusi, i primi provvedimenti sulla separazione delle classi tra uomini e donne prendevano il via.
Poi l’annuncio del governo, inclusivo sì, ma nei confronti di terroristi e ricercati di lunga data. Il mullah Abdul Ghani Baradar, che ha firmato gli accordi di Doha e che fino a quel momento era dato come capo del nuovo governo, ha ricevuto un semplice incarico di vice primo ministro. In compenso, il governo si ha accolto al suo interno membri della rete e famiglia Haqqani che da tempo intesse legami con Al Qaida. Il ministro dell’Interno, per dirne una, è Sirrajuddin Haqqani. Il secondo nome dice tutto. Ed appartiene alla rete omonima anche il ministro per i Rifugiati Khalil ur-Rahman Haqqani, che nei giorni scorsi avrebbe avuto un violento scontro con il più moderato Baradar.
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Le fonti parlano delle tensioni interne
A riportare l’indiscrezione sarebbero le fonti raccolte e citate dalla Bbc, ma sulla questione restano ancora numerosi interrogativi. Stando a quanto riportato dall’emittente, il dissidio avrebbe avuto luogo al Palazzo presidenziale e avrebbe visto in prima linea proprio un confronto serrato tra Baradar e Khalil ur-Rahman Haqqani. I due, stando alle fonti, si sarebbero scambiati “parole forti“, “mentre i seguaci litigavano tra loro nelle vicinanze”. In base a quanto riferito dai talebani intervistati dalla Bbc, il motivo della lite risiederebbe proprio nella distribuzione dei luoghi di potere e – di riflesso – nella gestione del nuovo governo: Baradar, ex compagno d’armi del mullah Omar, era scontento del ruolo assegnatogli, proprio a lui che – attraverso un lavorio diplomatico – era riuscito a sigillare gli accordi che hanno consegnato il Paese in mano ai talebani. Dall’altro lato, il gruppo Haqqani avrebbe ribadito l’importanza della lotta armata nella conquista dell’Afghanistan, portata avanti soprattutto dalla rete Haqqani, appunto. Dunque, era naturale ricevere un maggiore riconoscimento all’interno dell’esecutivo. Risconoscimenti che poi, vien da sé, detteranno la linea del nuovo governo.
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Talebani spariti: dov’è Baradar?
Ebbene, a mancare all’appello ora non è solamente Haibatullah Akhundzada, Guida Suprema del movimento islamico, da tempo fuori dai radar, al punto che molti lo credono già morto. Ora si aggiunge alla lista dei “desaparecidos” anche Baradar, scomparso dopo la sua ultima apparizione a inizio di settembre. A questo punto, le voci si moltiplicano. Le fonti riferiscono che dopo lo scontro il vice primo ministro si sia recato da Kandahar. La Bbc però sottolinea le discrepanze tra le versioni offerte dai talebani: inizialmente avevano parlato di un incontro tra Baradar e Hibatullah Akhundzada (guarda caso, l’altro scomparso), mentre ora l’assenza viene spiegata dicendo che il mullah “era stanco e voleva riposarsi“. Poi ci sono altre voci, altre fonti, le piste si confondono: una fonte non verificata afferma che il mullah si trova ricoverato a Kandahar, a causa di ferite riportate durante la lite.
Altre voci lo danno già per morto. Le ipotesi di morte o ferimento sono state talmente pressanti da spingere il portavoce talebano Mohammad Naeem a smentire ogni illazione di questo tipo: si tratta di propaganda nemica, dice lui, Baradar è vivo. Su internet circola un messaggio audio che i talebani attribuiscono proprio a Baradar: nel vocale una voce dice di essere fuori da Kabul e di stare bene. Tuttavia, la rassicurazione non è evidentemente sufficiente: Baradar continua a non apparire, il vocale potrebbe esser stato registrato prima della morte o del ferimento del mullah, oppure – più semplicemente – potrebbe non essere la sua voce. D’altronde, non sarebbe la prima volta che i talebani coprono la morte di uomini appartenenti al loro gruppo: il decesso del mullah Omar, ad esempio, è stato confermato dopo due anni di video e audio attribuiti a lui.
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Il problema a livello diplomatico
Al di là di ipotetiche morti, tuttavia, la questione rischia di assumere un pesante peso diplomatico. I talebani hanno ora bisogno di mostrare una struttura solida, avulsa da terremoti interni, compatta e, possibilmente, aperta al dialogo con i Paesi esteri. Tutti elementi che sembrano allontanarsi sempre più con l’allontanamento della figura di Baradar. E’ stato lui, nel febbraio 2020 a siglare gli accordi di Doha con il presidente Donald Trump, ed è lui uno dei rappresentanti di una frangia più disposta al dialogo all’interno della galassia dei talebani. Eppure, il governo talebano, in questo periodo di assestamento, sembra pian piano adottare il suo volto più estremo e intransigente. E il problema non riguarda solo l’Afghanistan.
La comunità internazionale da tempo è allarmata per la radicata presenza della rete Haqqani all’interno del governo, un gruppo armato che a sua volta intesse relazioni con Al Qaida. Anche per questo gli Usa ora lanciano l’allarme sul possibile ritorno definitivo di Al Qaida nel Paese. A ribadirlo è direttamente Scott Berrier, direttore della Agenzia di intelligence per la Difesa statunitense, che afferma: il movimento islamista potrebbe rappresentare “una significativa minaccia per l’America“. Fa eco David Cohen, vicedirettore della Cia, che dichiara di aver ricevuto “indicazioni di potenziali movimenti di Al Qaeda in Afghanistan“. Al potrebbe riorganizzarsi in Afghanistan in soli 12-24 mesi ha ribadito il generale Scott Berrier. E visto com’è andata l’ultima volta nel calcolo delle tempistiche dell’intelligence Usa, non ci stupiremmo se fosse anche meno.