Con Giuseppina Di Luca e probabilmente Svetlana Balica (il riconoscimento è ancora in corso) si allunga la tragica lista di atti di femminicidio che continuano ad avere luogo sul suolo italiano. Una strage che prosegue a ritmi altissimi, inaccettabili, e che spesso si consuma anche a causa dei soliti deficit strutturali. Al di là delle promesse di inclusività, la politica deve farsi carico di adeguati strumenti politici (oltre che culturali) per far fronte a una minaccia che, potenzialmente, riguarda metà della popolazione.
Il femminicidio è un atto di prevaricazione alimentato da una cultura maschilista, non un raptus di follia, non un estremo gesto dettato da un amore distorto. Il femminicidio ha radici strutturali e culturali, non necessariamente legate a una presunta instabilità mentale. Il femminicidio è disprezzo della libertà della donna, non emanazione di squilibri psichici tutto sommato imprevedibili. Insomma, il femminicidio è un qualcosa che riguarda la società tutta, la cultura e le misure giuridiche che questa società adotta per prevenirlo e/o punirlo, non riguarda la storia privata di una coppia alla provincia di Brescia. Solo leggendo in quest’ottica i femminicidi che si accalcano sulle pagine di giornale è possibile astrarre qualcosa dalla semplice cronaca, portare a casa l’esigenza di un radicale e immediato cambiamento. Solo così l’omicidio di Giuseppina Di Luca, uccisa a coltellate dal marito sulle scale della palazzina, può suscitare una reazione politica che non sia semplice scandalo. Solo così le ossa emerse dai piedi di un dirupo, probabilmente appartenenti a Svetlana Balica, uccisa dal marito, produrranno qualcosa di più del semplice ribrezzo. Queste donne sono nomi, storie private, certo, ma messe in fila delineano una tendenza tragica, quasi una consuetudine al femminicidio.
I numeri
Femminicidio dopo femminicidio, la strage prosegue a ritmi altissimi e la situazione appare tanto più evidente quando dai nomi si passa ai numeri. In questo caso ci aiutano i dati Eurostat: nel 2019 in Europa sono state uccise 1.421 donne, una media di quattro al giorno, una ogni sei ore. Ma questo avviene in maniera disomogenea: i dati ufficiali aggiornati a due anni fa confermano che i tassi di femminicidi più elevati riguardano i Paesi dell’Europa orientale e meridionale, cioè Paesi che – in tutte le altre misurazioni – non brillano per rispetto della parità di genere. Nel 2019 – Francia, Germania, Spagna e Italia a parte – le donne uccise sono state 80 in Polonia, 71 in Romania, 42 in Lettonia. Le donne, e questo è il dato che fa più spavento, rappresentano più della metà delle vittime totali in diversi Paesi (a Malta sono l’80%, a Cipro il 66,6%, in Lettonia il 62,7% e così via). In Italia, il 35,5%. Nel 2020, anno segnato dal lockdown, in Italia le chiamate al 1522 sono aumentate del 79,5% rispetto al 2019, spiega il Ministero della Salute. Il boom è avvenuto a partire da fine marzo, per raggiungere il picco di maggio che ha registrato un +182,2 rispetto a maggio 2019). Gli uomini sono più squilibrati nei Paesi orientali e meridionali, più folli durante i lockdown? No, semplicemente hanno modo di esprimere più liberamente quel disprezzo della donna che irradia ogni forma di violenza, fino all’omicidio.
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Le storie di femminicidio
E spesso si tratta di violenze ripetute, nei casi “migliori” denunciate dalle donne in questione. Ada Rotini allora “è solo un altro nome in una lista di donne che non ce l’hanno fatta”, dice Antonella Caltabiano, presidente del Telefono Rosa. Anche Ada, come Vanessa Zappalà, è morta dopo avere denunciato i maltrattamenti, a dicembre 2020. Dopo un periodo vissuto in una comunità protetta, Rotini ha deciso di andare via. L’8 settembre è stata sgozzata dal marito a Bronte, in provincia di Catania. “Non eravamo pronti ad affrontare una cosa del genere – ha dichiarato il sindaco di Bronte Pino Firrarello – Ma adesso bisogna fare qualcosa di più. E mi rivolgo ai parlamentari, della Camera e del Senato, che non hanno ancora capito che la situazione è grave“. Così è partita una raccolta firme per “sollecitare una legge di iniziativa popolare a difesa delle donne oggetto di violenza di genere“. Per Firrarello la linea deve essere chiara: “Bisogna che si faccia una legge durissima“.
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Le responsabilità
E la legislazione, in questo senso, non può essere l’emanazione benigna di una stessa distorsione culturale secondo la quale la responsabilità di tutto ricade sulle spalle delle donne: le donne non necessitano di più strutture nelle quali nascondersi, necessitano di non doversi nascondere. Ben vengano le strutture, certamente, ben vengano i telefoni rosa, ma la soluzione politica a una consuetudine di questo tipo non può essere rappresentata dal semplice fornire alle donne più vie di fuga. Una soluzione politica che si rispetti, che tratti da la donna come soggetto da tutelare e non come oggetto da proteggere, deve comprendere al suo interno anche la capacità di agire preventivamente sulla causa della fuga, sul marito violento, sullo stalker, sul compagno ossessionato. Insomma, deve incastrare l’uomo violento e molestatore all’insorgere della minaccia, non a omicidio consumato a un anno di distanza dalle prime avvisaglie. Perché inserire una donna all’interno di un ambiente protetto è comunque una misura al ribasso: pur di non intervenire sulla causa, propone una riduzione della libertà alla donna che, in ogni caso, rimane ingabbiata nella condizione di vittima.
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Per questo rappresenta un primo segnale, ma non sufficiente, quanto affermato a Catania dalla ministra per la Famiglia e le Pari opportunità Elena Bonetti: “Il fenomeno della violenza contro le donne è un fenomeno aberrante che ha visto numeri aumentare durante la pandemia. E’ un fenomeno che va sradicato, ripudiato”. Poi ancora: “Le strade sono segnate sono tracciate. La strategia nazionale di contrasto alla violenza maschile contro le donne le individua chiaramente, su questo siamo impegnati: alleanza tra tutti i soggetti che sono coinvolti tavoli regionali istituzionali nella città e a livello di governo che siano però il luogo di una costruzione di processi concreti di prevenzione, di protezione e di accompagnamento delle vittime per un percorso di fuoriuscita“. Di fronte alle parole di Bonetti e alle promesse della politica, verrebbe da dire: bene l’intenzione di “rendere strutturale il finanziamento per la rete dei centri antiviolenza della case rifugio“, bene la promozione di “un processo culturale che rimuova la disparità di genere”. Ma sembra che tutte queste misure richiedano azioni sulle donne vittime di violenza, e molti meno interventi sugli uomini origine delle violenza. Far sbilanciare tutti gli sforzi sempre e solo su un unico piatto della bilancia basterà?