Un documento programmatico ambizioso, firmato dal Ministro Degli Esteri Luigi Di Maio lo scorso anno e che ha lo scopo di rilanciare il Made in Italy alla luce della crisi economica e sanitaria che continua a bloccare il vecchio continente
“Finalmente, il motore del Made in Italy, asset strategico per eccellenza dell’economia e della imprenditoria italiane, può tornare a correre”.
Con queste parole a Giugno dello scorso anno, il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha presentato il nuovo Patto per l’Export italiano.
Un documento programmatico che aveva lo scopo di rilanciare le esportazioni Made in Italy in un momento storico molto complicato. La crisi economica in cui ci ha trascinato questa pandemia è difatti ancora adesso molto lontana dall’essere risolta, anche se negli ultimi mesi la sensazione è che il vecchio continente sia riuscito ad allontanare lo spettro di quella che la capo economista del Fondo Monetario Internazionale Gina Gopinath definì come la più grande recessione dalla Grande Depressione degli anni trenta. ( In un articolo sul blog ufficiale dell’FMI che fu ignorato, quantomeno pubblicamente, dai leader europei in modo inspiegabile per mesi)
Evidente però che l’anno scorso, in un contesto così complicato e così difficile da affrontare per qualunque compagine di governo, il rilancio dell’export made in Italy aveva un’importanza strategica forse anche fin troppo sottovalutata dall’opinione pubblica. Voluto, firmato e presentato da Di Maio, il Patto per l’Export è una delle prove per cui la storiografia politica italiana lo giudicherà, vivisezionando il lavoro svolto dalla Farnesina negli ultimi anni. Non certo la prima prova del fuoco per il politico pentastellato, che in precedenza si era ritrovato ad avere su di sé un ministero, quello del lavoro, che di certo non era meno problematico. Resta comunque il fatto che internazionalizzare il sistema produttivo era una necessità non più evitabile, e che molta della credibilità di Luigi Di Maio, ma forse in senso più ampio dell’interno Movimento 5 Stelle ( che con Conte sembra ormai essersi istituzionalizzato quasi fosse un partito tradizionale), si gioca sulla riuscita di un piano indubbiamente ambizioso. Non a caso d’altronde, Di Maio lo ha presentato delineando “una strategia certamente ambiziosa, ma solida. Una strategia di sostegno pubblico alle imprese che si affacciano sui mercati internazionali, che potrà contare su risorse straordinarie messe a disposizione dal Governo per imprimere al sistema produttivo un nuovo slancio”.
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Patto per l’Export 2020, le criticità da affrontare illustrate nel documento del governo
Nel documento ufficiale pubblicato sul sito del governo, vengono in primo luogo messe in rilievo quelle che secondo il Ministero erano le criticità da risolvere il prima possibile per permettere alle imprese di agire al meglio in campo internazionale. Per quanto riguarda le conseguenze da affrontare strettamente legate alla pandemia, viene segnalato ad esempio un aumento immotivato di “pratiche discriminatorie” sui prodotti italiani, con la richiesta di certificazioni aggiuntive a quelle previste dalla legislazione europea, che hanno finito gradualmente con il mettere in difficoltà le imprese esportatrici, senza inoltre sottovalutare quanto sia sia stato forte il crollo della domande estera su alcuni comparti, in particolar modo quello turistico, a causa del protrarsi dell’epidemia e delle chiusure.
Il rapporto però fa riferimento anche a problemi endemici che da sempre penalizzano l’export italiano e che non hanno mai trovato una vera risoluzione, come ad esempio la mancata digitalizzazione del tessuto produttivo interno alle PMI italiane, un gap che continua a restare abnorme rispetto alle nazioni più avanzate del vecchio continente come ad esempio la Germania.
Il documento parla anche di “una scarsa consapevolezza dei consumatori stranieri” dell’eccellenza made in Italy
Ma, e questo è forse l’obiettivo che si pone il Ministero e l’aspetto che più colpisce dell’intero documento, c’è anche un problema di comunicazione e conoscenza delle norme che rappresenta attualmente forse il freno più grande che frena l’espansione a livello internazionale delle aziende del territorio. Si legge infatti di una “la scarsa consapevolezza, da parte di un’ampia platea di consumatori stranieri, dell’eccellenza dell’offerta italiana in comparti innovativi e ad alto contenuto tecnologico; l’insufficiente conoscenza degli incentivi all’internazionalizzazione già esistenti”. Il Ministero in tal senso cita un dato incontrovertibile: nel 2019 soltanto 800 aziende su 140 mila, e dunque lo 0,5 per cento complessivo delle Pmi italiane, ha utilizzato i finanziamenti agevolati Simest. Un fatto che per il governo è spiegabile soltanto a causa di una pressoché nulla conoscenza da parte delle imprese di questa tipologia di agevolazioni.
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Quanto soldi sono stati stanziati per il Patto per l’Export?
Su quali siano i problemi da affrontare per migliorare ed aiutare il comparto export nel nostro paese, il Ministero sembrava dunque avere le idee chiare al momento della stipula di questo patto per l’export.
Ma quanti soldi sono stati alla fine stanziati per supportarlo?
La cifra in realtà è ragguardevole: nel documento si parla complessivamente di circa 1,4 miliardi di fondi per favorire questo processo di internazionalizzazione Questi, risultano divisi nel seguente modo: “316 milioni di Euro per il Piano straordinario Made in Italy e per gli altri programmi promozionali dell’ICE (comprensivi di economie derivanti da annualità precedenti); 600 milioni di Euro per il rifinanziamento del Fondo 394/81 (al netto dei rientri attesi sul fondo rotativo); fino a 300 milioni di Euro per il finanziamento della componente a fondo perduto del Fondo 394/81, fino al 31.12.2020; 82 milioni di Euro per le attività di promozione integrata ed il piano di comunicazione previsti dal D.L. “Cura Italia”; 30 milioni di Euro per un nuovo bando in materia di temporary export manager e digital export manager, a cura di MAECI e Invitalia; oltre 8 milioni di Euro, in favore della rete delle Camere di commercio italiane all’estero, a valere sulle annualità del programma “True Italian Taste”, per attività di promozione delle eccellenze agroalimentari italiane e di contrasto all’Italian sounding; fino a 200 miliardi di Euro di garanzie statali per le imprese italiane attivabili attraverso la SACE, ai quali si aggiunge il potenziamento del sostegno finanziario all’export mediante l’assicurazione degli impegni in favore delle imprese italiane esportatrici da parte di SACE per il 10 per cento”.
Quale tempistiche sono state previste per la sua attuazione?
Superato il problema della quantità di risorse disponibili da investire e di come queste andassero suddivise, vi era naturalmente la necessità di indicare delle tempistiche precise per attuare questi piano per il rilancio del Made in Italy, in un paese che notoriamente fa della lentezza burocratica la sua bandiera.
Anche per questo, è stato fin dal principio previsto un incontro con cadenza mensile tra le parti coinvolte, per valutare e analizzare la corretta attuazione di questa strategia. E su questo aspetto in particolare, la politica sembra aver prestato particolare attenzione, in quanto gli obiettivi da perseguire e che devono essere mensilmente predisposto a un “check” da parte del Ministero non sono pochi: dal rafforzamento della partnership tra università e imprese alle attività di contrasto al falso Made in Italy e una supervisione costante al Piano per la Comunicazione strategica.
Come scritto in precedenza, la politica sembra aver preso consapevolezza che il Made in Italy all’estero non viene mai raccontato o promosso in modo adeguato, e vive dunque di una sua celebrità che con l’entrata dei nuovi competitor internazionali, potrebbe anche finire a un certo punto. Non è affatto detto, per fare un esempio pratico, che Milano continui a restare la capitale della moda e un’eccellenza per l’intero comparto anche tra vent’anni, se l’intero comparto non resta al passo con i tempi.
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Quali conclusioni a distanza di quasi un anno dalla firma del Patto per l’Export?
Una domanda a questo punto è lecita.
A distanza di un anno dalla sua applicazione, com’è andata? Si è trattato di un accordo che sta realmente aiutando le imprese italiane a migliorare la propria competitività, o per il momento non è ancora riuscito a produrre i risultati sperati?
Com’è anche normale che sia, in pentastellati negli ultimi mesi hanno più volte rivendicato la validità del patto siglato da Di Maio, affermando con convinzione come i suoi primi effetti positivi siano già adesso visibili. La viceministra dell’Economia e delle Finanze Laura Castelli ha più volte rimarcato la centralità della leadership Di Maio e la sua capacità di aver saputo coordinare al meglio tutti gli attori economici, definendosi più volte sicura di come questo accordo cambierà il paese e il made in Italy in meglio. Secondo Simona Suriano, possiamo già adesso constatare come il Patto per l’Export, a dieci mesi dalla sua approvazione, abbia avuto un effetto positivo sull’economia: “i dati Istat sul commercio estero italiano confermano che la strada intrapresa è quella giusta”.
I dati a cui fa riferimento la Suriano, e che riguardano l’ultimo rapporto Istat sull’export nel nostro paese, presentano sicuramente diversi indicatori incoraggianti, ma che questi sia una diretta conseguenza dell’accordo siglato da Di Maio per il made in Italy, non è una tesi semplice da argomentare.
È ancora troppo presto per poter davvero comprendere quanto la strategia messa in campo dal governo si stia rivelando realmente efficace nello sconfiggere problemi endemici che da sempre ci penalizzano nelle esportazioni. A questo andrebbe inoltre aggiunto che, in un’unione monetaria in cui attualmente l’unica strada per abbassare il prezzo di un prodotto coincide con il taglio del costo del lavoro, e dunque dei salari, difficilmente si può registrare una vera crescita per il paese senza scontare successivamente degli squilibri interni: quanto meno paghiamo un operaio italiano per produrre della merca che finirà sul mercato internazionale, tanto più questi sarà in grado di spendere e foraggiare il mercato interno, in un circolo vizioso che purtroppo sembra rappresentare il marchio fondante di questa unione. Un problema atavico che non può essere analizzato in questa sede.
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Il rapporto Istat a cui fa riferimento la deputata pentastellata ci indica una crescita rispetto al trimestre precedente, dei “flussi commerciali con l’estero”, anche se questi hanno interessati maggiormente le importazioni. Aumentano però, questo sì che è un segnale positivo, del 2,5 per cento le vendite verso i paesi dell’Unione Europea, così come “a giugno 2021, tutti i settori registrano forti incrementi tendenziali delle esportazioni a eccezione di articoli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici in calo dell’1,1%.”.
Qualcosa dunque si muove, ma è ancora presto per stabilire quanto abbia inciso una ritrovata normalità commerciale dovuto ad un allentamento delle misure restrittive, e dunque a una maggiore facilità di far tornare nuovamente a circolare le merci, e quanto invece alla prima fase di questo patto per il rilancio internazionale delle aziende italiane. L’impressione è che il vero banco di prova per il governo in tal senso, sarà qualcosa di molto più intangibile e difficile da misurare nel breve termine: che il nostro paese non sappia comunicare efficacemente, sia internamente, informando in modo corretto le aziende sulle agevolazioni di cui possono disporre, sia esternamente, spiegando in modo chiaro ai consumatori che cos’è il Made in Italy, invogliando così un processo di fidelizzazione che al momento nasce esclusivamente dalla qualità dei nostri prodotti e non certo da una loro corretta promozione, è un mero dato di fatto.
E rappresenta forse la criticità più grande per poter realmente aspirare a competere in modo stabile sul mercato internazionale.
Non si scopre certo l’acqua calda affermando che il mondo di oggi è in primo luogo comunicazione, e non esiste azienda comparto o stato che può più evitare di raccontarsi. Il motivo? Una nuova generazione di consumatori che nulla a che fare con quella che fino a questo momento è comunque rimasta fedele al Made in Italy a prescindere, per abitudine.