Dopo vent’anni, in Afghanistan si chiude l’occupazione Usa: il bilancio

L’operazione di ritiro delle truppe Usa in Afghanistan è terminata, si chiude un ciclo di 20 anni di occupazione. Ma la partita non sembra finita qui, anzi. A preoccupare – oltre al fallimento “nell’esportazione della democrazia” – è anche la precarietà dell’obiettivo minimo prefisso dall’occupazione Usa: sconfiggere i gruppi terroristici. A distanza di vent’anni, Isis e Al-Qaeda restano in Afghanistan. E la società civile rischia di perdere, a causa dei talebani, quelle conquiste faticosamente importate grazie alla presenza statunitense. 

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MeteoWeek.com (Photo by Sascha Schuermann/Getty Images)

Dopo vent’anni, la parabola di occupazione Usa in Afghanistan volge al termine. L’operazione Enduring Freedom ebbe inizio il 7 ottobre 2001, in risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre. Gli Usa, sconvolti dal dolore e da un profondo senso di fragilità, attaccarono i talebani in Afghanistan, accusati di fornire copertura ad Al-Qaeda. All’inizio l’operazione procedette agilmente. Il 9 dicembre 2001 gli Stati Uniti e i loro alleati ottennero la resa di Kandahar, che produsse la fuga del leader talebano Mullah Omar. Anche Osama Bin Laden, capo di Al-Qaeda, si dette alla fuga. Si concluse così la prima fase del conflitto, quando a maggio del 2003 il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld annunciò: “I combattimenti principali erano conclusi“, si poteva dare inizio alla fase di ricostruzione. Nella realtà, però, quella fase di ricostruzione si rivelò più difficile del previsto, minacciata dal ritorno di talebani che diedero il via a una pervasiva operazione di guerriglia in tutto il Paese. La situazione peggiorò ulteriormente proprio nel 2003, quando gli Stati Uniti decisero di intraprendere contemporaneamente la guerra in Iraq alla ricerca di Bin Laden (che poi fu trovato solo nel 2011, in Pakistan).

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Iraq, Bin Laden, i tira e molla

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MeteoWeek.com (Photo by Scott Olson/Getty Images)

L’operazione in Iraq è – secondo molti analisti – uno dei principali motivi della sconfitta statunitense in Afghanistan: distolse risorse, energie, attenzioni, militari, mentre nel territorio afghano la guerriglia si fece sempre più pesante. Pian piano, il consenso dei cittadini statunitensi calò, lasciando il posto al desiderio di ritirare le truppe. Eppure gli anni passano, nel 2008 si tenta un estremo attacco statunitense: le truppe americane aumentarono dell’80%. Poi venne il tempo di Barack Obama, eletto a novembre, portatore di una promessa in politica estera: porre fine a un’occupazione che succhiava energie e vite da ormai 7 anni. Neanche Obama ci riuscì, costretto a rimandare, di volta in volta, la deadline del ritiro delle truppe. Finalmente, nel 2011 iniziano i primi, graduali ritiri, la Nato che tenta di passare il testimone alle truppe afghane.

Dall’altro lato, i talebani colgono i primi segnali di resa, si riorganizzano e iniziano a incalzare nuovamente la guerriglia, che raggiunge il culmine nel 2015. Si arriva così, pian piano, a Donald Trump: anche lui si fa eleggere con la promessa di porre fine all’occupazione in Afghanistan. Dopo vari tira e molla, Trump ottiene un tavolo con i talebani: le trattative iniziano nel febbraio 2019 in Qatar. La bozza di pace prevede il ritiro delle truppe americane e degli alleati, e in cambio chiede ai talebani di impedire la presenza attiva di altri gruppi jihadisti nel Paese. Gruppi che, vien da sé, continuano ad operare. L’accordo viene comunque firmato il 29 febbraio 2020 e la palla passa al nuovo presidente Joe Biden. Il resto è triste cronaca degli ultimi giorni.

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Costi

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Ora che il ritiro è finalmente completato, arriva il momento di tirare le somme di vent’anni di impegno. La sconfitta appare evidente non solo da un punto di vista politico (i talebani tornano al potere, Al-Qaeda resta ancora lì, l’Isis miete vittime), ma anche da un punto di vista umano ed economico. Lo dimostra il bilancio delle vittime dall’inizio della guerra: oltre 47 mila civili afghani, circa 66mila militari afghani, 51mila talebani. Per quanto riguarda i soldati americani, sono circa 800mila gli uomini e le donne che hanno partecipato alla guerra in Afghanistan. Circa 2.442 di loro sono morti. Per non parlare dei collaboratori sul territorio, sui quali mancano cifre specifiche. Da un punto di vista economico, l’intera campagna in Afghanistan è costata complessivamente 785 miliardi di dollari agli Stati Uniti, stando a quanto riportato dal Pentagono. La cifra, tra l’altro, riguarda prettamente le spese operative e militari. Volendo contare anche gli interessi pagati sui prestiti che la Casa Bianca ha contratto per finanziare l’occupazione e il “nation building”, si arriva alla cifra esorbitante di 2.313 miliardi di dollari. Soldi spesso dilapidati nel vortice nero della corruzione del governo afghano, che spesso ha gonfiato i risultati sia in merito al numero di militari equipaggiati, sia in merito alle opere effettivamente portate a termine, dalle scuole alle autostrade.

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E conquiste

Eppure, nonostante la corruzione, nonostante il continuo stato di guerriglia, nonostante la difficoltà di portare avanti un Paese tra logoranti lotte intestine, l’occupazione Usa lascia anche qualcosa di buono sul territorio afghano. Come sempre, i grandi eventi storici sono complessi e spesso contraddittori. Ciò che si può fare è cercare di restituire le diverse sfaccettature. E allora va anche ribadito che l’aspettativa di vita è cresciuta dai 56 ai 64 anni, la mortalità per parto si è dimezzata. Ma a colpire è soprattutto l’indice di alfabetizzazione, passato nel corso di 20 anni dall’8 al 43%. Progressi che, certamente, si sono propagati in maniera eterogenea, concentrandosi soprattutto nelle grandi città come Herat e Kabul, arrivando solo marginalmente nelle province rurali. Fatto sta che – stando al Financial Times – le scuole afghane ora contano circa 8,2 milioni di bambini in più rispetto al 2001. La condizione delle donne, almeno nelle città, è progressivamente migliorata, e ha ottenuto l’accesso a lavori prima inimmaginabili. A migliorare sono anche le infrastrutture, un dato su tutti: nelle città l’accesso all’acqua potabile è passato dal 16% all’89%. Ora bisognerà capire quanto solidi risulteranno questi miglioramenti, quando l’economia afghana sia in grado di reggere autonomamente l’impatto dei talebani. A preoccupare è soprattutto un’evidenza: i miglioramenti sono stati possibili soprattutto grazie agli aiuti internazionali. Gli stessi aiuti che risultano al momento congelati.

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