Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden non è riuscito a trattenere il pianto parlando delle vittime dell’attentato di Kabul: un’espressione emotiva che esteticamente ha rappresentato le enormi difficoltà in cui si dibattono gli Stati Uniti e la sua amministrazione.
Ci sono alcune immagini che, di questo immenso disastro afghano a cui stiamo assistendo attoniti da settimane, rappresentano bene alcuni aspetti: la bambina che saltella in apparenza serena dopo essere sbarcata a Fiumicino con la famiglia, il console italiano a Kabul Tommaso Claudi che – tra i pochi rimasti per provare a concludere nel miglior modo possibile un lavoro difficilissimo – aiuta un bambino ad entrare in aeroporto. Il militare americano che coccola e prova a tranquillizzare un piccolo afghano. La 23enne Nicola Gee, sergente dei marine anche lei immortalata con un neonato in braccio e poi tra le vittime dell’attentato dell’Isis. Gli afghani drammaticamente abbarbicati alla carlinga del C-130 americano in fase di decollo, e poi precipitati ed immortalati come novelli “falling men”. E poi le orribili immagini dell’attentato, con i corpi divelti di centinaia di persone a terra.
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Ma c’è una immagine che riesce a descrivere, non solo emotivamente ma anche e sopratutto politicamente, il momento storico che stiamo vivendo. E’ l’immagine di Joe Biden che, durante il suo intervento a commentare l’attentato di tre giorni fa, non trattiene le lacrime. Parlando dei militari americani morti il 26 agosto, il presidente degli Stati Uniti si commuove e piange. Empatia, emotività, sincera compassione, forse un pò di scena: qualunque sia il motivo che lo ha portato a lasciarsi andare, possiamo però dire che non abbia senso. Surreale e controproducente: se si vuole trovare delle parole per definire il pianto di Biden, forse queste sono le migliori. Surreale perchè esprime un dolore per una vicenda tragica innescata da una sua scelta, e che tra l’altro poteva essere evitata, visto che anche i muri sapevano quando, dove e come sarebbe avvenuto quell’attacco. Una decisione sbagliata, certamente figlia dello sciagurato accordo siglato d Trump, ma che poteva essere definita e gestita in mille altri modi.
Ed invece Biden ha inanellato una serie di scelte e prese di posizione una peggiore dell’altra: a partire dal ritiro delle truppe, frettoloso e non concordato – di fatto – con gli alleati, passando per la gestione caotica del ritiro, per la gestione di migliaia di afghani che nei venti anni di occupazione avevano lavorato con gli americani ed ora avrebbero dovuto essere aiutati, fino ad arrivare alla reazione dopo l’attentato più annunciato della storia. Lacrime, rabbia, chiacchiere ed un drone inviato ad uccidere uno dei leader dell'”Isis K”. Altra azione, quest’ultima, che offre ancora di più il fianco a critiche e retropensieri: ma se l’intelligence Usa è riuscita ad individuarlo ed eliminarlo in nemmeno 48 ore, non sarebbe stato possibile intervenire prima? Se la pericolosità di questo “distaccamento” asiatico dello Stato Islamico era nota, non si sarebbe dovuto provvedere a gestire la minaccia? Ed ancora, lo ribadiamo: essendo l’attentato che ha causato quasi duecento morti stato annunciato, previsto, descritto nei particolari dai servizi segreti di almeno quattro paesi giorni prima che si verificasse, non si sarebbe dovuto provvedere ad evitare e contenere i danni?
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Se, se, se: tante domande, poche risposte. E’ chiaro che la situazione sul terreno è molto difficile da gestire: ma è altrettanto vero che il caos è stato innescato proprio dalla decisione di ritirare le truppe in fretta e furia. C’è chi dice che Biden non poteva decidere diversamente, e che al momento la priorità per la sua amministrazione sia la politica interna. E che i dossier “internazionali” che interessano alla Casa Bianca siano quelli che riguardano la Cina ed il nucleare iraniano. D’altronde l’America ha spesso imposto la sua agenda al mondo, con improvvisi cambi di direzione strumentali ai suoi interessi che gli alleati hanno dovuto subire: è la legge del più forte. Ma il ritiro dall’Afghanistan che sembra molto una fuga, il caos nella gestione del vuoto di potere, l’incapacità di prevenire l’attentato, e anche quelle lacrime, quell’immagine di debolezza ed allo stesso tempo di frustrata inconsistenza politica, sta spingendo tutto il mondo a porsi una domanda storica: sono ancora i più forti? L’America è ancora il paese che detta la linea alla politica ed alla economia del mondo? No, no lo è. La Cina, la Russia, le potenze regionali come la Turchia stanno – ormai da anni – erodendo il potere a stelle e strisce. Dalla Libia alla Siria, gli Stati Uniti non sono più i referenti unici nella definizione delle strategie globali. La presidenza Trump ha mascherato questa tendenza con l’aggressività dialettica, il sovranismo esasperato e la politica dell’ “America First” che sapeva tanto di isolazionismo in salsa social; ma il trend è chiaro. Purtroppo per Biden, la sua presidenza arriva in un momento delicatissimo, in cui tante questioni si sovrappongono creando una congiuntura esplosiva: il post pandemia, la Cina ormai potenza globale che spinge per conquistare mercati e supremazia economica, il Medio Oriente che sta cambiando assetti politici anche in seguito al fallimento delle politiche americane. E poi il “fronte interno”, con la spaccatura della società divisa dall’esplosione del movimento Black Lives Matter da una parte ed il suprematismo bianco incoscientemente utilizzato da Trump per scopi elettoralistici. Una situazione che richiederebbe scelte politiche forti, decise, lungimiranti e definite. Caratteristiche che sembrano lontane anni luce da quello che “Sleepy Joe” sta mostrando al mondo ed al suo paese in questi mesi: Biden è debole, e gli americani se ne stanno accorgendo.