Fanno discutere le parole dell’avvocata e componente Pd della Commissione pari opportunità della regione Toscana. La trentacinquenne avrebbe affermato in un’intervista al Tirreno di Pisa: “Forse qualcuno rimarrà sorpreso, ma sono a favore della presa del potere da parte dei fondamentalisti in Afghanistan, non perché condivida il loro modus operandi. Ritengo che quello che stiamo vivendo fosse una tappa obbligata della storia”. La dichiarazione ha scatenato l’attacco della Lega e – di riflesso – la richiesta delle dimissioni da parte del Pd. Qualche considerazione.
“Forse qualcuno rimarrà sorpreso, ma sono a favore della presa del potere da parte dei fondamentalisti in Afghanistan, non perché condivida il loro modus operandi. Ritengo che quello che stiamo vivendo fosse una tappa obbligata della storia“. Queste parole, pronunciate in un’intervista rilasciata al Tirreno di Pisa, hanno scatenato una pioggia di polemiche e la richiesta di dimissioni da parte del Pd. A parlare è Nura Musse Ali, avvocata e componente della commissione Pari Opportunità della Regione Toscana. La trentacinquenne avrebbe poi aggiunto nell’intervista: “La presa del potere da parte dei fondamentalisti islamici è una tappa obbligata per un Paese, l’Afghanistan, ancora alla ricerca di un’identità politica e sociale, in cui l’Occidente non è riuscito a costruire niente di rilevante nella vita della gente comune“. Quanto affermato ha scatenato titoli sulle presunte posizioni filo-talebane della consigliera.
Quanto espresso da Nura Musse Ali – inutile negarlo – presenta numerose criticità, ma forse è stato illegittimamente ridotto a un fanatismo pro-talebano. Nel corso dell’intervista la consigliera ha poi affermato: “Nel Paese i fondamentalisti rappresentano la maggioranza e gli occidentali sono visti dalla maggior parte dei cittadini come potenze straniere che non hanno cittadinanza su quel suolo. Quindi non solo è ovvio che non abbia attecchito il tentativo di importare la democrazia, ma anzi che abbia peggiorato la situazione sotto il profilo geografico, essendo stato il Paese teatro di guerra, e quello umano. Non solo sono state perse molte vite, ma chi è rimasto è comprensibilmente arrabbiato con il governo afgano e chi lo ha appoggiato facendolo durare troppo a lungo”.
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Insomma, una cosa è chiara: Nura Musse Ali è molto critica nei confronti dell’esito dell’intervento statunitense in Afghanistan, e sottolinea come non sia stato sufficiente per creare quel tessuto sociale, culturale, politico ed economico in grado di resistere all’avanzata dei talebani. Le parole della consigliera possono essere criticate sotto diversi punti di vista, a partire dall’affermazione sulla prevalenza di fondamentalisti nel Paese. Può essere criticata anche la dichiarazione su un peggioramento della situazione in Afghanistan con l’intervento Usa: grazie agli Stati Uniti nel frattempo un’intera generazione è riuscita a ritagliarsi condizioni di vita migliori rispetto al regime talebani, e questo va sottolineato. Ma quando afferma che l’Occidente, e più in particolare gli Usa, hanno fallito nell’esportazione della democrazia, dice una cosa vera sotto gli occhi di tutti. Altrimenti non si spiegherebbe la resa incondizionata delle truppe afghane finanziate fino a quel momento dagli Usa, così come non si spiegherebbe una presa così rapida di Kabul da parte delle truppe afghane.
Ad ogni modo le parole ambigue della consigliera sono subito state attaccate dal leader della Lega Matteo Salvini, che ha dichiarato: “Le parole di Nura Musse Ali sono gravissime soprattutto perché pronunciate da una donna, come si può sostenere un regime guidato da criminali che ammazzano, stuprano, torturano e chiudono in casa le donne? Siamo sicuri che Letta e Giani prenderanno le distanze, perché l’apologia dell’islam radicale è incompatibile con la nostra democrazia”. Immediata anche la richiesta di dimissioni da parte del Pd, tirato per la camicia dagli affondi della Lega, pronto a fare la voce grossa: “Le parole di Nura Musse Ali non rappresentano il pensiero del Pd, che si batte da sempre affinché sia riconosciuto il ruolo delle donne, in Italia come nel mondo. Per questo, nel dissociarci dalle sue parole e nel ribadire la nostra contrarietà verso ogni regime che azzera la dignità delle persone, chiediamo che si dimetta”.
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La stessa Nura Musse Ali, scoppiato il caso, ha inviato una precisazione al Tirreno, nella qualche cerca di togliere ogni ambiguità dalla sua dichiarazione: “L’operare delle nazioni occidentali là in Afghanistan, pur essendo stato lodevole nello scopo (sconfiggere il fondamentalismo e restaurare la democrazia) non è completamente riuscito ad entrare nella vita della gente, specialmente quella lontana dalle città principali facendo sì che i talebani prendessero il potere là dove non sono arrivate le nazioni occidentali. Quindi io non sono per i talebani. Figuriamoci, data la mia plurima identità mi sono sempre illusa persino di poter offrire idee ‘nuove’ per estirpare il fondamentalismo dal pianeta. Io sono con tutte le donne afgane che vedranno i loro diritti vessati, calpestati, che magari subiranno mutilazioni nella culla, matrimoni forzati nell’infanzia e lapidazioni nell’età adulta. Io sono per i diritti, per un altro mondo ovunque”. La consigliera cerca di aggiustare il tiro: le sue parole non volevano essere un elogio dei talebani, ma una critica nei confronti dell’operato degli statunitensi. Una critica sulla quale hanno levato gli scudi il giornalismo sensazionalistico e le dichiarazioni politiche di facciata.
Al centro della questione c’è però una dichiarazione della consigliera che può essere considerata veramente spinosa e che forse non va accettata né respinta a priori, ma ragionata. Ed è la dichiarazione su cui si è scatenato tutto: “La presa del potere da parte dei fondamentalisti islamici è una tappa obbligata per un Paese, l’Afghanistan, ancora alla ricerca di un’identità politica e sociale, in cui l’Occidente non è riuscito a costruire niente di rilevante nella vita della gente comune”. Proprio oggi ne ha parlato al Corriere Pino Alracchi, ex direttore dell’agenzia Onu contro la droga, uno dei pochi al mondo ad aver trattato con i talebani del primo Emirato: “Dobbiamo ammettere che se dopo 20 anni ce li ritroviamo lì, vittoriosi, vuol dire che qualche consenso tra la popolazione ce l’hanno. Conquistato il potere, però, camminano su un filo. Il Paese ha problemi immensi e loro sanno che se non danno risposte in tempi brevi, sono destinati a cadere”. E’ questa la possibile grande sconfitta che l’Occidente non vuole neanche discutere: perché l’Afghanistan non ha opposto una resistenza diffusa e organizzata? Possibile che l’operazione “per esportare la democrazia” sia stata un tale fallimento?
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Difficile dirlo ora, la questione diventerà sicuramente un caso di studio (ammenoché non la si voglia silenziare, mettendo la testa sotto la sabbia). Fatto sta che una cosa la si può dire: probabilmente non si tratta di consenso afghano nei confronti dei talebani. Le scene strazianti per fuggire, i morti nella calca, le disomogenee dimostrazioni di dissenso ci mostrano quanto il popolo afghano abbia paura dei talebani, quanto sia grande la voglia di fuggire. Ma la paura non si trasforma in lotta, appunto, se non in rari casi. Allora probabilmente non si tratta di consenso, ma si tratta di mancanza di un progetto per cui lottare, quel progetto che l’Occidente non è riuscito a radicare nel territorio.
Lo ha detto bene Gastone Breccia, docente all’Università di Pavia sull’ultimo numero dell’Espresso, parlando della resa incondizionata dell’Afghan national Army: “Un esercito che non si riconosca in un governo autorevole, che non sia convinto di rappresentare il proprio popolo, che non sia unito da una forte spinta ideale e che non venga pagato da mesi, è sconfitto prima che voli una freccia“. Perché “anche nel terzo millennio” per combattere “gli uomini devono essere disposti a rischiare di restare feriti o uccisi; disposti al sacrificio per senso del dovere, per fedeltà alla patria o al loro comandante, per ideologia, religione o almeno per denaro“. La grande differenza è che i talebani sanno per cosa combattono, mentre la popolazione afghana non ha un orizzonte definito per cui combattere. Il castello dell’esportazione della democrazia crolla, gli Usa capiscono che la democrazia non può essere esportata con le armi, con i soldi destinati alla corruzione e con le strutture di potere, ma è un desiderio che va coltivato nel e dal territorio.
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