“Aiutatemi, io e la mia famiglia siamo qui fuori dall’aeroporto di Kabul. I talebani sparano, non fanno passare più nessuno. Non c’è tempo. Uccidono i bambini, non hanno pietà. Aspettiamo ci facciano entrare, so che sta decollando un altro aereo e potrebbe essere l’ultimo. Nessuno ci chiama, ma non possiamo restare qui, con i talebani non si può vivere. Aiuto”. È il disperato grido di appello di Sayed in un’intervista all’Adnkronos.
L’uomo è partito da Herat venerdì scorso, dove dal 2008 al 2012 ha lavorato come interprete a Camp Stone per il contingente militare italiano, ha inoltre prestato servizio come capitano nell’esercito afghano. Ora si trova a Kabul con la moglie e i due figli di 10 e 6 anni, in attesa di salire su quel ponte aereo che li porti verso la libertà.
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“Il mio nome nella lista di ex collaboratori da portare in Italia è stato scritto forse tardi e ancora oggi nessuno mi chiama – ha raccontato – Ogni volta che un aereo accende i motori pensiamo sia finita per noi. Non c’è più tempo, qui non possiamo stare. Qui ci ammazzeranno. Io vedo altri andar via, ma io per quattro anni sono stato un collaboratore fedele, l’Italia mi porti via da qui con la mia famiglia, ho servito il mio Paese come ufficiale in prima linea, ma oggi di quel che era non resta più niente. Fate qualcosa per l’amor di Dio”.
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