Sta veramente accadendo: il mantenimento di un equilibrio interno alla maggioranza tra forze diversissime – quello che sembrava una missione impossibile – sembra reggere sotto la guida del presidente del Consiglio Mario Draghi. Di certo, è ancora presto per cantare vittoria: sul tavolo ci sono i temi veramente caldi da affrontare, dalla riforma fiscale a quella della giustizia. Fatto sta che, tra strappi e ricomposizioni, il governo sembra proseguire nella sua missione: attuare il Recovery e governare la pandemia. Merito di Draghi o scelta dei partiti?
Sembrava impossibile e invece sta accadendo: anche se tra molte difficoltà, il governo Mario Draghi tiene la barra dritta e punta agli obiettivi che hanno portato alla sua composizione (gestione della pandemia e attuazione del Recovery Plan). Insomma, l’equilibrio tra forze diversissime della maggioranza sembra tenere. Ovviamente, è ancora presto per cantare vittoria. Fino ad ora la maggioranza ha dovuto affrontare questioni di carattere emergenziale, compresa la consegna del Pnrr alla Commissione Ue (visto il tempo esiguo che era rimasto a disposizione).
Per quanto riguarda la fredda programmazione dei passi futuri, fino ad ora il dibattito si è concentrato per lo più sul tema delle riaperture, questione che ha fatto alzare i toni ma senza scuotere dalle fondamenta la tenuta della maggioranza. La situazione potrebbe peggiorare, però, in vista della discussione sulla riforma fiscale e della giustizia. In quel caso Draghi sarà costretto a cercare una mediazione tra chi – come Letta – propone una tassa di successione e chi – come Salvini – propone invece una flat tax. A quel punto si potrebbe passare dalle minacce propagandistiche a una reale fase di crisi del governo. Ma anche a quel punto il governo Draghi potrebbe uscirne indenne. Come mai?
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Di certo, parte del merito va alla capacità di mediazione di Mario Draghi, una capacità non scontata per quello che è stato inizialmente presentato come “tecnico”. Draghi è stato effettivamente in grado di ponderare le parole, evitando di alimentare dibattiti pretestuosi che avrebbero fatto il gioco dei singoli partiti, ma non dell’intera maggioranza. Schivando provocazioni e ascoltando le parti attraverso costanti incontri, Draghi sembra aver imparato dagli errori del suo predecessore Giuseppe Conte.
Ma in ballo c’è anche un’altra questione: la crisi dei partiti. Di fronte uno scenario politico completamente stravolto, di fronte il terzo governo con tre maggioranze diverse nel giro di una stessa legislatura iniziata tre anni fa, le forze partitiche accusano stanchezza e confusione. Non sanno più chi sono, su cosa puntare, con chi allearsi. Molti sono stati costretti a cambiare repentinamente posizioni politiche di fronte all’emergenza: si pensi alla spaccatura interna al M5s, alla fuoriuscita di Casaleggio e Di Battista; oppure si pensi alla sorprendente nuova Lega europeista, con un Matteo Salvini che ora punta al Ppe e a una federazione con il centrodestra di governo, dialogando con la tradizione della destra moderata.
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Uno scenario del genere non ha potuto che logorare dall’interno la salute di un sistema partitico già in crisi. Una debolezza di fondo che si trasmette anche all’elettorato, frammentato tra micropartiti e tre grandi partiti che però non riescono a raggiungere la soglia del 30%. La tenuta del governo Draghi si potrebbe allora spiegare anche in questo modo: il governo non entra in crisi anche perché la crisi, ora, è dei partiti. Le forze politiche questo lo sanno, e cercano di sfruttare questo momento di debolezza come “fase di riflessione” per rifondarsi dall’interno, puntando a quel 2023 delle elezioni. Il problema è che risulta difficile farlo in un contesto in cui i partiti sono costretti a sdoppiarsi: un conto è il loro sostegno al governo Draghi, un conto è la loro reale linea politica, sembrano ripetere. Addirittura nel caso del Pd arriva la trinità: in maggioranza con alcune forze politiche, alle elezioni politiche forse insieme al M5s, alle amministrative da soli laddove l’alleanza con i pentastellati diventasse impossibile. Ovviamente, un’ibridazione di questo tipo non può che cambiare in maniera artificiosa quel volto partitico che le diverse forze politiche vorrebbero rifondare dal principio.
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Una mutazione “a vetrino” alimentata anche da cambi drastici in politica estera. Salvini non parla più di Putin, la trumpiana Giorgia Meloni presenta una mozione parlamentare in linea con la posizione economica di Biden sulla tassazione delle multinazionali, Berlusconi riafferma con più forza la sua tradizionale linea Atlantica, nonostante i rapporti con Putin. All’interno di questo quadro, allora, Draghi sembra riuscire a mettere d’accordo tutti – oltre che per meriti personali – anche perché tutti non sanno più che linea prendere. La paura è che questo nuovo conclamato europeismo sia solo una posizione di comodo pronta ad esplodere nel suo opposto non appena si creerà l’occasione adatta. Il problema è che a quel punto il dibattito pubblico potrebbe non avere più gli strumenti per capire cosa sta accadendo.
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