“Fare memoria non può essere solo un esercizio retorico di devozione per le vittime di quelle stragi“. Di Matteo ricorda che gli strumenti più duri di detenzione per i mafiosi furono pensati da Falcone per combattere efficacemente la mafia. La Consulta però ha dato un anno di tempo per ripensarli in conformità con la Costituzione.
Nel giorno del ricordo della Strage di Capaci, l’ex-magistrato antimafia Nino di Matteo è tornato a parlare di criminalità organizzata, giustizia e politica. Lo ha fatto tramite una lunga intervista rilasciata al Fq Millennium in cui lancia l’allarme: “Stanno cominciando a realizzarsi alcuni degli scopi che Cosa Nostra intendeva perseguire nel momento in cui concepì le stragi“. Il pm si riferisce alla possibilità di abolire i regimi di carcere più duro per i magistrati, in particolare all’ergastolo ostativo.
Di Matteo sottolinea come il sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino oggi rischi di essere relegato a semplice memoria, dimenticando però che proprio a causa dell’attacco subito dallo Stato da parte della mafia, vennero adottate misure straordinarie ideate dallo stesso Falcone per fronteggiare le organizzazioni criminali. Il magistrato ritiene assurdo pensare all’abolizione dell’ergastolo ostativo, strumento perfezionato dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. “Fare memoria non può essere solo un esercizio retorico di devozione per le vittime di quelle stragi – continua il pm -. Deve significare anche stimolare la ricerca della verità, per colmare le lacune che ancora ci sono. Fare memoria significa ricordare un dato oggettivo”.
Stando a quanto scritto da un comunicato stampa inviato il 15 aprile, la Corte Costituzionale fa sapere di riconoscere l’illegittimità del rifiuto della liberazione condizionale agli ergastolani condannati per mafia che non collaborano con la Giustizia, rinviando la decisione sulla questione a maggio 2022. Un anno di tempo dunque in cui il legislatore dovrà decidere cosa fare con i detenuti che vivono in questa condizione. Il nodo è l’Articolo 27 della Costituzione italiana, secondo cui “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato“.
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Sicuramente le forme di carcere duro e di isolamento all’interno del carcere furono concepite in un momento emergenziale, il 1992 in cui la pressione mafiosa e le stragi stavano mettendo in ginocchio il concetto stesso di Giustizia nel nostro Paese. La situazione oggi è profondamente diversa, le criminalità organizzate sono cambiate e lo stesso approccio che ha la politica nei loro confronti, ma Di Matteo ribadisce come anche in tempi recenti i mafiosi detenuti premessero per abolire questa forma di detenzione che isola il carcerato da ogni contatto. “È certo che Riina e gli altri si muovessero tra le altre cose per abolire l’ergastolo, che significa veramente il fine pena mai, cioè il carcere a vita – dice il magistrato -. L’apertura di alcune sentenze della Consulta e della Cedu a una sostanziale abolizione dell’ergastolo ostativo vanno in questa direzione. E ne sono consapevoli pure i detenuti all’ergastolo che hanno compiuto quelle stragi proprio con quest’obiettivo: in questo momento sanno che possono sperare di tornare liberi“. Recentemente si è si è passati addirittura a mettere in discussione la legge Rognoni-La Torre che introdusse per la prima volta nel codice penale la previsione del reato di associazione di tipo mafioso e la conseguente previsione di misure patrimoniali applicabili all’accumulazione illecita di capitali.
In un’altra intervista Di Matteo sottolinea come “purtroppo molte delle teste pensanti delle organizzazioni mafiose, in questo momento, si sentano vicini alla realizzazione di un obiettivo importante. Sostanzialmente sta venendo meno quella differenza, quella forbice trattamentale, tra i mafiosi che collaborano e i cosiddetti irriducibili che, sicuramente, ha costituito da decenni una delle spinte fondamentali che ha indotto molti mafiosi a collaborare con la giustizia. Questa sentenza sull’ergastolo ostativo segna un passo indietro nella efficacia del sistema complessivo di contrasto alle organizzazioni mafiose”.
E’ certo che la pericolosità dei mafiosi è altissima anche quando questi entrano in detenzione. Per fare un esempio, Totò Riina era ancora in grado di comandare Cosa Nostra anche dal carcere, tanto che alcune intercettazioni hanno dimostrato che stesse pianificando l’omicidio dello stesso Di Matteo. Da qui la necessità di metterlo in regime duro, isolandolo da eventuali contatti esterni. La pericolosità di un mafioso è viva qualora la cosca di cui fa parte il detenuto sia ancora operativa ma le misure alternative al carcere ed eventuali benefici come gli incontri familiari, possono essere applicate solo qualora sia ampiamente dimostrata la non pericolosità del detenuto. D’altra parte, sempre stando all’articolo 27 della Costituzione, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. La detenzione non deve essere quindi punitiva e soprattutto lo Stato non può ergersi a “punitore” del condannato.
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E’ un tema spinosissimo su cui il legislatore ha un anno di tempo per riflettere, si spera non ragionando né in termini populistici che tenderebbero a volersi “vendicare” del mafioso né in termini eccessivamente bonari, ricordando appunto la pericolosità di certi sogetti.
COME NASCE L’ERGASTOLO OSTATIVO
Era il 1992, all’indomani della strage di Capaci, quando nacque il regime dell’ergastolo ostativo per escludere i condannati per reati di mafia, terrorismo ed eversione, che rifiutavano di collaborare con la Giustizia, dai benefici penitenziari. Furono dunque i tragici delitti di quel particolare periodo storico e la necessità di indagare su fatti di cruciale importanza per il Paese vincendo l’omertà dei condannati, a spingere il legislatore verso l’attenuazione del principio rieducativo della pena, inasprendo l’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario.
Il termine ergastolo ostativo non compare in nessuna norma. E’ un’espressione coniata dalla dottrina, per indicare quei casi in cui la perpetuità della pena detentiva è irriducibile, se non collaborando con la Giustizia. Solo la volontà di collaborare, comproverebbe infatti il distacco del condannato dai legami con l’associazione mafiosa. A fondamento della previsione normativa dell’art. 4 bis ord. pen. c’è dunque una presunzione assoluta di pericolosità del condannato che rifiuta di collaborare con la giustizia. La nozione di ergastolo “ostativo” serve a distinguerlo dall’ergastolo comune, per il quale invece resta possibile un progressivo miglioramento del trattamento penitenziario, che va di pari passo con la crescita dell’opera di rieducazione del reo.
Fra i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario e negati ai condannati all’ergastolo ostativo ricordiamo: la liberazione anticipata, (che scorpora 45 giorni ogni semestre di pena scontata, quando il detenuto partecipa alla rieducazione), i permessi premio (per consentire al condannato che dà prova di buona condotta, di coltivare fuori dal carcere i propri interessi affettivi e sociali), il lavoro all’esterno ( cui i detenuti possono essere ammessi dopo 10 anni di pena scontata nell’istituto penitenziario), la semilibertà (che consente di trascorrere parte del giorno all’esterno, per attività di reinserimento sociale, dopo aver scontato 20 anni di pena), la liberazione condizionale dopo aver scontato 26 anni di pena, per il detenuto che dimostra un sicuro ravvedimento.