Confermata la condanna nei confronti di un transessuale che, su Facebook, aveva definito «frocio» un politico.
La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per diffamazione nei confronti di un transessuale processato dalla Corte di Appello di Milano. Rivolgersi ad una persona chiamandolo «frocio» equivale ad una diffamazione. A ciò si aggiunge che non si possa sostenere che la «coscienza sociale» sia cambiata e accetti questo epiteto come se non avesse «carattere ingiurioso».
Cos’è successo
L’imputato che vive e lavora a Milano aveva scritto su Facebook che un politico del posto aveva avuto con lui «un rapporto sessuale». Sullo stesso social, era stato definito «frocio» e «schifoso». Il politico, da parte sua, ha deciso di agire per vie legali. L’imputato, dopo le condanne di primo e secondo grado, ha fatto ricorso in Cassazione. Lo stesso ha affermato che «le parole utilizzate non avrebbero ormai preso, per l’evoluzione della coscienza sociale, il carattere dispregiativo».
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Non sembra però essere dello stesso parere la Corte di Cassazione che ha affermato: «Le suddette espressioni costituiscono, invece, oltre che chiara lesione dell’identità personale, veicolo di avvilimento dell’altrui personalità». E aggiunge: «Tali parole sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, come dimostrato dalle liti furibonde innescate, in ogni dove, dall’attribuzione delle qualità sottese alle espressioni di cui si discute e dal fatto che, nella prassi, molti ricorrono, per recare offesa alla persona, proprio ai termini utilizzati dall’imputato». La richiesta dell’imputato dunque non è stata accolta e dovrà versare tremila euro alla Cassa delle ammende.