M5S tra presente e futuro: il nodo dei due mandati fa la differenza tra un partito e un movimento. E’ il momento di decidere cosa si vuole essere da grandi.
Il Movimento 5 Stelle dice addio alla regola dei due mandati, una scelta che rischia di spaccare il gruppo parlamentare, portare diversi sostenitori storici fuori dal M5S e più vicino a Casaleggio, ma soprattutto perdere una fetta di consensi di coloro che avevano creduto alle teorie grilline del rinnovamento della politica e della partecipazione democratica.
Cade l’ultimo tassello dei dogmi pentastellati, ma la scelta era quasi scontata. Era davvero difficile credere che a chi chi fino a pochi anni fa aveva un reddito vicino allo zero e poche prospettive lavorative, potesse rinunciare a una terza candidatura. Da ora in poi i grillini non potranno dire di non essere “politici di professione”, termine sempre aberrato durante la lunga campagna elettorale del M5S. Se davvero Conte saprà dargli una struttura e organi interni, il M5S diventerà a tutti gli effetti un partito, non più un movimento ovvero un gruppo che ha come obiettivo quello di cambiare il sistema politico, ma una forza politica a tutti gli effetti.
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A questo proposito fanno sorridere le dichiarazioni della ministra M5S per le Politiche giovanili, Fabiana Dadone: “Mi sono espressa più volte sul vincolo dei due mandanti, credo sia importante non stare troppi anni in politica. Quando si entra nei palazzi e si rimane all’interno di certe cariche per moltissimo tempo poi si perde il contatto con la realtà“. Non è chiaro cosa intenda per stare troppi anni in politica, visto che tre mandati parlamentari per la bellezza di 15 anni nelle istituzioni (in attesa di capire cosa accadrebbe in un eventuale quarta candidature) sembrano davvero tanti.
Come si diceva, non tutti però sono d’accordo. Se da un lato ci sono i sostenitori rimasti fuori da posizioni elettive e che non troveranno spazio nelle liste per fare posto tra gli altri ai vari Di Maio, Crimi, Dadone, Taverna, Nesci, Sibilia, Castelli e Patuanelli, dall’altro c’è chi non ci sta e annuncia battaglia. Fonti parlamentari degli eletti M5S alla prima legislatura fanno sapere alle agenzie stampa che “l’Italia è nota per essere il paese delle mancate opportunità per carenza di merito. Siamo sicuri che Conte non commetterà questo errore che rischierebbe di spaccare ulteriormente il gruppo parlamentare e quindi compromettere il progetto di rifondazione in partenza. Siamo sicuri che esistono molti modi di valorizzare coloro che hanno portato un contributo importante nel Movimento rispetto a una eventuale candidatura“. Le indiscrezioni sul nuovo statuto 5 Stelle che metterà la proroga alla regola dei due mandati creano scontento da alcuni neo-eletti che però non si espongono ufficialmente.
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Non si può non pensare all’ingenuità di Alessandro Di Battista che nel 2018 scelse di non ricandidarsi, immaginando di ripresentare la propria candidatura in una seconda votazione pur rimanendo punto di riferimento dei grillini. “Sono stato l’unico cog*** a credere nella regola dei due mandati” ha dichiarato in tv la scorsa settimana. E ci sarebbe proprio da dirgli “Sì Dibba, ci credevi solo tu. Sei proprio un co**“. Però non sono chiuse tutte le porte, dopo l’addio di Conte a Davide Casaleggio e alla Piattaforma Rousseau, Di Battista potrebbe essere il prossimo candidato di punta di una formazione politica organizzata dal figlio di Gianroberto. “A settembre farò le mie valutazioni e deciderò, non sono tenuto a fare politica per tutta la vita. Non escludo nulla” ha detto l’ex-deputato romano.
Non solo regola dei due mandati, ovviamente, nello statuto targato Giuseppe Conte a cui i leader del Movimento hanno totalmente delegato ogni mandato e scelta politica. L’ex-premier ha scelto una (per lui) conveniente alleanza con il Partito Democratico che non è stata votata in nessuna assemblea e piattaforma, dichiaratamente spostando l’asse del M5S a sinistra e verso una via europeista, in totale contrapposizione a ciò che è sempre stato. E ancora stop “all’ecquivoco dell’uno vale uno“, la creazione di dipartimenti che si occuperanno di temi specifici, la scelta di un direttivo che sia vicino al capo politico. Insomma, il M5S è un cantiere sì, ma di un partito a tutti gli effetti. Se sopravvivrà a questa scelta è difficile dirlo.