Una consulenza privata per il governo nel gestire il Recovery Plan: la notizia del contratto alla “McKinsey” ha fatto esplodere la polemica, parzialmente rientrata dopo la spiegazione del ministero. Che non convince del tutto.
Se in Italia vuoi raggiungere degli obiettivi, bisogna affidarsi ai tecnici, ai commissari straordinari, alle consulenze esterne. Le strutture, i ruoli e le procedure “interne” non sono sufficienti, praticamente mai. Sembra essere questo l’inequivocabile messaggio che emerge dalle scelte che la politica italiana effettua regolarmente ormai da più di un decennio. Si è partiti – nella percezione collettiva – con il commissariamento della gestione del terremoto in Abruzzo nel 2009. Ricordate la figura di Bertolaso? Commissario straordinario per la gestione di quell’evento straordinario e drammatico, e poi di nuovo per tante altre occasioni. I commissariamenti non iniziano con lui e con il governo Berlusconi, chiaro. Ma quella circostanza mise in evidenza anche mediaticamente – per la prima volta – l’approccio dell'”emergenzialità”: per gestire eventi o questioni gravi e complesse bisogna ricorrere a strutture create ad hoc, più snelle, meno burocratiche. Anche private, se serve.
Leggi anche: Un generale dell’esercito commissario al Covid? Non è una buona idea
Un modello che va a replicare funzioni esistenti, incrementare costi ed ottenere pochi risultati: un esempio è proprio la gestione del terremoto abruzzese e della sua ricostruzione, di fatto ancora in corso dopo dodici anni. Scelte che evidenziano una costante mancanza di fiducia nei confronti di quello che le leggi dello Stato, a partire dalla Costituzione, prevedono per gestire le diverse fattispecie; ma invece di migliorare, ottimizzare e rafforzare strutture e procedure, si preferisce tagliare il welfare (che è complessivamente quello che serve a sostenere il Paese anche e sopratutto in emergenza) a vantaggio di altro. Vedi la sanità: tagliare i costi di quella pubblica, sostenere quella privata. Poi però arriva una pandemia mondiale e ci si ritrova senza posti letto in terapia intensiva. Cosa c’entra questo con la polemica esplosa tra venerdì e sabato scorso intorno alla “scoperta” della consulenza che il governo Draghi aveva deciso di richiedere alla “McKinsey”, multinazionale americana specializzata proprio in consulenze a soggetti privati e governi? A nostro parere il tema che accomuna tutte queste questioni è la voglia (o la necessità) di “esternalizzare” funzioni – anche delicate – con l’idea che possano essere gestite meglio fuori dalla macchina dello Stato che dentro.
Il Ministero dell’ Economia e delle Finanze ha smentito, dichiarando che la McKinsey non sta progettando il modello di gestione dei soldi del Recovery Plan ma sta semplicemente fornendo una consulenza tecnica, come d’altronde avviene anche in altri paesi d’Europa. Un contratto da 25mila euro – che pare essere stato affidato senza gara, cosa che l’esiguità della cifra consentirebbe e di cui non erano stati informati i leader dei partiti. Una scelta tecnica effettuata dai tecnici, insomma, fatta in passato anche da governi più “politici” di quello attuale. Anche durante il Conte II la McKinsley era intervenuta nella definizione dei decreti “Ristori” (altro risultato molto distante dalle aspettative, ndr). Una tradizione, quella di affidarsi in modo massiccio alle consulenze esterne, che risale davvero a tempi oggi lontani, e che ha avuto conseguenze a volte molto negative: vedi ad esempio il ruolo che ebbero nel processo di privatizzazione in un periodo delicatissimo nella storia del nostro paese, che va dal 1993 alla metà del primo decennio del 2000 circa. Lo descrive bene un rapporto della Corte dei Conti del 2012: “L‘attività del Comitato nelle diverse procedure è stata condizionata dalle pressanti esigenze di ordine finanziario dello Stato. Ciò potrebbe aver determinato in alcuni casi, la non piena valorizzazione degli asset anche in termini di ristrutturazione produttiva delle imprese interessate. In alcuni dei casi esaminati (Telecom, Enel) si è avuta la conferma – già emersa nella pregressa indagine sui processi di privatizzazione – di una tendenza del Comitato ad avvalorare il parere già espresso dai consulenti dell‘Amministrazione, finendo coll‘assumere un ruolo quasi formale, senza esercitare compiutamente quella funzione di indirizzo che il quadro normativo gli attribuisce”.
Leggi anche: Il Decreto Ristori cambia nome: le mosse di Mario Draghi per salvare l’economia
Ricapitoliamo: asset dello stato non valorizzati al momento di privatizzarli, e ruolo del Comitato Permanente di consulenza globale e di garanzia per le privatizzazioni – istituito con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri allo scopo di supportare l‘Amministrazione nell‘attuazione del processo di privatizzazione delle aziende pubbliche fornendo assistenza tecnica – formale rispetto le indicazioni dei consulenti. Di fatto, secondo la relazione del 2012 della Corte dei Conti, furono dunque le consulenze a determinare in alcuni importanti casi l’indirizzo che presero le ristrutturazioni e le privatizzazioni degli asset nazionali, contribuendo a non valorizzarne al massimo la cessione ai privati. Una funzione di indirizzo che – in maniera forse casuale e comunque in un contesto definito da priorità complesse – portò ad un danno, o ad un mancato vantaggio per il sistema paese. “Assumere un ruolo quasi formale senza esercitare la funzione di indirizzo politico” significa di fatto permettere a dei consulenti anche privati e magari anche stranieri di definire politiche nazionali di rilevanza assoluta. Stiamo parlando della cosa pubblica, del bene comune. Ecco, sulla base di questi accadimenti passati, forse è lecito essere sospettosi di fronte alla notizia che una multinazionale americana privata stia intervenendo nella definizione della più vasta immissione di danaro nel nostro sistema economico dai tempi del piano Marshall. Anche perchè, ma questa è una coincidenza, a dirigere il Tesoro negli anni in cui si svolsero buona parte dei fatti citati nella relazione della Corte dei Conti, era proprio Mario Draghi (direttore generale del Tesoro dal 1991 al 2001). Una notizia in più che quasi certamente non significa nulla, ma che un minimo contribuisce a preoccupare.