Acclamato come il “festival della rinascita”, sembra proprio che non ci sia nulla che da Sanremo prenda nuova vita: a rimanere sono soltanto ceneri.
4 luglio 2019. Parco delle Caserme Rosse di Bologna. Era il secondo giorno dell’Oltre Festival e si esibivano sul palco Mecna e Franco126. All’ingresso controllavano gli zaini e facevano togliere i tappi alle bottigliette d’acqua. Il prato era immenso, eppure eravamo tutti appicciati l’uno all’altro: sentivi la voce stonata di quello accanto a te che urlava, la pelle sua che sfiorava la tua come se foste amici da una vita, gli odori di tutti che si mischiavano e andavano a confondersi con le luci.
20 settembre 2020. Arena Puccini, sempre a Bologna. Al Tutto Molto Bello cantavano i Tre allegri ragazzi morti. All’ingresso non aprivano gli zaini, ma controllavano la temperatura e ti chiedevano di indossare la mascherina. Sotto il palco nessuna calca, nessun contatto. Eravamo seduti su delle sedie in plastica, distanziati. Difficile definirlo un concerto, però tutto sommato sembrava di stare al teatro a vedere l’opera. Due file avanti a me c’era una famiglia con un bimbo di pochi mesi: gli avevano messo le cuffie per proteggerlo dai suoni troppo forti e lui si muoveva a tempo di musica nel passeggino. Pensavo che, almeno, la pandemia qualcosa di buono l’aveva fatto: portare un neonato a un concerto. Impensabile prima di allora.
5 marzo 2021. Cinema chiusi, teatri pure, concerti neanche a pensarci. La spesa del pubblico è calata di oltre l’80%, soltanto i live club italiani hanno perso più di 50 milioni di euro di incassi. Un intero settore messo in ginocchio, un intero settore fatto di lavoratori che con tutta probabilità a terra ci rimarranno anche dopo la pandemia. E mentre il mondo della cultura attraversa uno dei momenti più bui della sua storia, Sanremo continua a fare musica e a parlare di rinascita, a testimonianza del fatto che non gli serviva di certo una nave da crociera per chiudersi in una bolla lontano dalla realtà.
Quello dell’Ariston è, senza ombra di dubbio, un palco magico. Magico perché sembra vivere in una dimensione parallela in cui il Covid-19 non è mai arrivato, dove si continua a fare musica come se fosse ancora la cosa più normale del mondo. Lo Stato Sociale è l’unico che si affaccia per sussurrare che, forse, non è esattamente così, che fuori di strumenti e di voci non se ne sentono. Ma è soltanto un attimo, un momento fugace: la bocca della band viene presto chiusa, come se fosse soltanto un ronzio venuto a rovinare la sinfonia di Sanremo.
Sanremo, il “festival della rinascita”. Così l’ha definito Amadeus, il suo conduttore, fin dall’inizio. Forse una definizione più appropriata sarebbe stata “festival dell’ostinazione”, quell’ostinazione (per non dire capriccio) tipica di un bambino che vuole a tutti i costi mangiare l’ennesima fetta di torta nonostante abbia i denti pieni di carie. Perché, diciamocelo, da questo festival non c’è proprio niente che prenda nuova vita. Quando le porte dell’Ariston si chiuderanno e le luci del palcoscenico si spegneranno, rimarrà solo una cosa: il silenzio. La musica non riparte con Sanremo, i cantanti non riprendono a fare le tournée e noi non torniamo ad accalcarci sotto ai palchi. No, con il festival non si rinasce.
Ma allora tutto questo a cosa è servito? Forse ad Amadeus, per sentirsi a posto con la propria coscienza. Forse alla Rai, per illudersi di poter dare ancora qualcosa agli italiani. Forse anche ai cantanti, per vivere un sogno lungo qualche serata. Ma di certo non a tutti quei lavoratori che da un anno a questa parte non sanno più come andare avanti, di certo non a quel neonato che muoveva le manine a ritmo, di certo non alla musica.
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