Quali differenze ci sono se ricevo solo una dose anziché due del vaccino anti-Covid? Ecco le risposte del prof. Francesco Menichetti alle principali domande sul tema
Da qualche tempo circola l’ipotesi di inoculare una sola dose di vaccino anti-Covid per far fronte alla carenza del siero. Idea che proviene dal Regno Untio e che ha fatto sorgere parecchi dubbi sulla sua fattibilità. Alle principali domande sul tema ha risposto, sulle pagine del Messaggero, Francesco Menichetti, ordinario di malattie infettive dell’università di Pisa.
“Con una singola dose si riescono a vaccinare molte più persone, garantendo in media una copertura parziale, non ai massimi livelli di efficacia, di una quota rilevante di popolazione. Ci riferiamo a 17-18 milioni di vaccinati nel Regno Unito, contro 4 milioni di dosi inoculate in Italia”, afferma Menichetti.
E aggiunge: “Se guardiamo l’esperienza scozzese che riguarda oltre 5 milioni di cittadini possiamo osservare che lì si sono abbattuti i ricoveri ospedalieri per oltre il 90 per cento con la singola dose di AstraZeneca, e per oltre l’82 per cento con la singola dose di Pfizer-BioNTech. C’è una riprova sul campo che con questo tipo di politica si ottengono risultati importanti sugli indicatori dei ricoveri”.
I limiti “sono relativi al mancato rispetto delle schedule vaccinali indicate o utilizzate nelle sperimentazioni che ne hanno permesso la registrazione. L’autorizzazione regolatoria europea e italiana per Pfizer è basata sulla doppia dose a tre settimane, quella di Moderna a 4 settimane. Gli studi clinici hanno dimostrato un’elevatissima efficacia nel prevenire la malattia: per ambedue i preparati a Rna messaggero si attesta intorno al 90-92% se fatta con quell’intervallo di tempo – prosegue -. Il vaccino AstraZeneca ha invece una peculiarità che è molto vantaggiosa e che lo rende appetibile per una politica vaccinale in dose preliminare singola: il richiamo è infatti indicato a tre mesi”.
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“È un’ipotesi di lavoro”, risponde. “Ma bisognerebbe consolidarla molto di più: bisogna verificare se la singola dose può risvegliare una copertura di lunga durata. Non si conosce ancora l’effetto del vaccino sul medio-lungo periodo. Abbiamo solo informazioni parziali, non esistono dati che vadano oltre i sei mesi. Bisogna purtroppo aspettare e mettere a fuoco le evidenze scientifiche. L’orientamento per ora è quello di vaccinare comunque chi ha avuto l’infezione, anche se magari viene lasciato in coda nell’elenco delle priorità”.
Invece, “le persone più fragili dai 65 anni in su e quelle affette da fragilità con patologia, che in Italia sono 20 milioni, sarebbe meglio che ricevessero il ciclo di vaccinazione completa. Per le persone sotto i 65 anni si potrebbe pensare a una politica vaccinale meno stringente, ma che tenga conto però delle schedule vaccinali”.
“L’obiezione rilevante riguarda appunto il fatto che la singola dose vaccinale, dando un’immunità inadeguata, potrebbe favorire la diffusione delle varianti. Sono rischi che si possono correre. È sempre bene che si abbia una vaccinazione completa, però occorre considerare anche che è stata dimostrata l’efficacia dei vaccini solo nei confronti della variante inglese. Per quanto riguarda invece la variante brasiliana e quella sudafricana si ha ragione di ritenere che i vaccini non siano completamente protettivi”, spiega il professore sul Messaggero.
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E conclude: “La politica vaccinale deve basarsi sulla sintesi virtuosa di quello che è possibile, e farlo al meglio. L’esperienza della Scozia, con la riduzione dei ricoveri, non ci dà informazioni sulla riduzione della diffusione del virus. Ma è evidente che una politica vaccinale che riesca a coinvolgere una larga fetta della popolazione è certamente in grado di ridurre anche la circolazione del virus”.
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