Mafia, scoperta una nuova famiglia nei quartieri Zen-Pallavicino di Palermo. Durante il lockdown di marzo il clan aveva organizzato una raccolta alimentare per i poveri. Solo cinque vittime di racket hanno denunciato. Intanto, i boss preparavano rapine con armi da guerra
La Dda di Palermo ha disposto il fermo di 16 persone accusate a vario titolo di associazione mafiosa, tentato omicidio, estorsioni, danneggiamenti, minacce aggravate e detenzione abusiva di armi da fuoco. L’indagine “Bivio”, coordinata dal procuratore Francesco Lo Voi e dall’aggiunto Salvatore De Luca e condotta dal Nucleo investigativo dei carabinieri di Palermo, riguarda il “mandamento” mafioso di Tommaso Natale. In particolare, le “famiglie” di Tommaso Natale, Partanna Mondello e Zen-Pallavicino. Tra gli indagati anche lo storico capomafia Giulio Caporrimo che, tornato in libertà nel maggio 2019 dopo una lunga detenzione, ha dovuto fare i conti con la nuova leadership di Francesco Palumeri. Quest’ultimo sarebbe asceso al vertice del clan dopo la riorganizzazione degli assetti mafiosi seguita agli arresti disposti con l’inchiesta “Cupola 2.0”.
Caporrimo, però, secondo gli inquirenti, non avrebbe mai riconosciuto la leadership di Palumeri non ritenendolo all’altezza dell’incarico. Il boss, emerge dall’inchiesta, avrebbe infatti contestato anche le decisioni assunte dai nuovi vertici del clan perché contrarie alla “ortodossia” mafiosa. In particolare una delle regole principali dell’organizzazione: quella secondo la quale si è mafiosi fino alla morte e si mantiene il proprio incarico di vertice anche durante la detenzione. Non considerando Palumeri un reggente, Caporrimo avrebbe quindi deciso di stabilirsi a Firenze per prendere le distanze dall’organizzazione che, nelle intercettazioni, arrivava a definire non “Cosa nostra” ma “cosa come vi viene”.
L’allontanamento da Palermo del capomafia confermerebbe la piena operatività delle decisioni prese dalla nuova commissione provinciale. E Palumeri, ritenuto portavoce e vice del boss Calogero Lo Piccolo, figlio dello storico padrino Salvatore, avrebbe acquisito il titolo per imporsi sul suo rivale. Cosa nostra si è trovata davanti a un bivio (da qui il nome dell’indagine): accettare l’ organismo provinciale della commissione, oppure rimettere in discussione tutto attraverso le persone più carismatiche nel tempo rimesse in libertà, come Caporrimo. Dopo aver trascorso un periodo di isolamento a Firenze, Caporrimo l’11 aprile del 2020 sarebbe tornato a Palermo riuscendo in poco tempo ad accentrare nuovamente su di sé i poteri dell’intero “mandamento” ed evitando gli spargimenti di sangue che pure era disposto ad affrontare. Appoggiato dai presunti fedeli alleati Antonino Vitamia, Franco Adelfio e Giuseppe Cusimano, avrebbe dunque ripreso in mano le redini del mandamento.
Il presunto capomafia palermitano Giuseppe Cusimano sarebbe stato il punto di riferimento per le famiglie indigenti del quartiere Zen. Cusimano avrebbe infatti tentato di organizzare una distribuzione alimentare per i poveri durante il primo lockdown del 2020. Ciò sarebbe la conferma di quanto gli inquirenti denunciano dall’inizio della pandemia: Cosa nostra tenta di accreditarsi come referente in grado di fornire aiuti alla popolazione alla ricerca del consenso sociale e del riconoscimento sul territorio indispensabili per l’esercizio del potere mafioso.
In Cosa nostra sarebbe nata una nuova “famiglia” mafiosa. E’ quella dei quartieri Zen-Pallavicino, affidata alla gestione di Giuseppe Cusimano. Dall’indagine emerge che il nuovo clan avrebbe però avuto problemi gestionali, dovuti all’esuberanza criminale e alla violenza di alcuni suoi esponenti. Un esempio è quanto accaduto lo scorso settembre 2020 nel quartiere Zen, quando due gruppi armati si sono sfidati “a duello”. Le due bande si sarebbero affrontate, armi in pugno, in pieno giorno e in strada, sparando colpi di pistola che solo per un caso fortuito non hanno ucciso o ferito nessuno. L’episodio avrebbe indotto i vertici mafiosi a prendere provvedimenti e a progettare l’eliminazione di alcuni soggetti non “allineati” e non controllabili. Solo l’intervento degli inquirenti ha scongiurato nuovi omicidi.
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Il racket continua comunque a vessare imprenditori e commercianti a Palermo. Dall’indagine emerge infatti che gli estorsori continuano a imporre le imprese amiche ai costruttori e a riscuotere il “pizzo”, in maniera capillare, dai commercianti locali. In caso di resistenze da parte degli operatori economici, i boss non avrebbero esitato a porre in essere minacce, danneggiamenti, incendi. L’inchiesta ha ricostruito 13 estorsioni aggravate dal metodo mafioso (dieci consumate e tre tentate) e due danneggiamenti seguiti da incendio. Ma soltanto cinque imprenditori vittime hanno scelto di denunciare.
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La mafia avrebbe infine pianificato rapine a portavalori e distributori di benzina con armi automatiche da guerra ed esplosivo al plastico. L’intento dei vertici dello Zen sarebbe stato quello di assaltare un portavalori di una società di vigilanza per incamerare denaro da utilizzare per il sostentamento dei mafiosi liberi e detenuti. Stesso progetto riguardava un distributore di benzina, che utilizzava vigilanza armata. L’organizzazione, emerge dall’inchiesta, non avrebbe esitato a usare le armi per neutralizzare il vigilante e rapinare l’esercizio commerciale.
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