L’Italia tra fratture e partiti personalistici

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MeteoWeek.com (da Getty Images)

Ed è proprio grazie alla figura dell’attuale leader di Forza Italia che quella fusione tra partito e persona diventa eclatante. La tv degli anni Ottanta ha rappresentato per Berlusconi il modo per crearsi prima un suo pubblico e poi un elettorato in grado di votare il partito da lui creato. Poi quel partito divenne anche lo strumento per far passare le presunte leggi ad personam di cui venne accusato. Quando nel 1994 Berlusconi entrò in politica aveva già creato un gruppo di affezionati alla sua narrazione, aveva già messo in campo la sua persona. Il partito era solo una cornice. Tutt’oggi, all’interno delle alleanze dei partiti di destra, Berlusconi tende a rivendicare di essere lui il solo padre del centrodestra. “Il centrodestra in Italia esiste perché lo abbiamo creato noi, l’ho reso possibile io con la mia discesa in campo nel 1994“, ripeteva nel novembre del 2020. Da allora è stato proprio il centrodestra, naturalmente più incline ad accettare una leadership forte, ad alimentare la narrazione del partito personalistico. Finché, adesso, i partiti di centrodestra non sono tre, tutti personalistici. E i tre leader si ritrovano a doversi strappare lo scranno a vicenda.

A sinistra la storia del partito personalistico è stata più travagliata. Senza contare la marea di conflitti tra i vari esponenti politici risolti in equilibrismi interni ai partiti nel corso degli anni, una cosa è certa: con Matteo Renzi lo scontro personalistico viene ufficializzato anche nel centrosinistra. Nel 2008 Renzi puntò a diventare il primo cittadino di Firenze, contestando la vecchia guardia Pd: “I leader tristi del Pd da rottamare senza incentivi“. D’Alema, vecchia guardia proveniente dal partito comunista, rispose: “È sufficiente che un giovanotto dica che vuole cacciarci a calci in culo, che subito gli vengono concesse paginate sui giornali“. La guerra tra i due fronti era dichiarata. E lo scontro si consumò proprio sul carattere personalistico che – a detta della vecchia guarda del Pd – Renzi stava imprimendo al partito. Una parte del Pd accusò Renzi di non voler lasciar spazio all’eterogeneità di voci interne al Pd, fino alla scissione del Pd con buona parte della vecchia guardia che confluì in Articolo Uno. E fino alla successiva scissione del Pd che portò – nel settembre 2019 – a Italia viva, il partito fortemente connotato dalla leadership renziana.

Inoltre, in quel periodo lo stesso Carlo Calenda, fino a quel momento renziano, si staccò dal senatore di Rignano per creare un partito proprio: Azione. Insomma, con Matteo Renzi si è ufficializzata la disgregazione del centrosinistra: una parte cerca di mantenere almeno ufficialmente una coralità di voci (spesso dispersiva), l’altra parte crea partiti ad personam (e non a caso è la parte che pone più l’accento su “centro” e meno su “sinistra”). Persino il M5s – una forza politica atipica rispetto alle altre, per nascita e contenuti – inizialmente si è aggrappata alla figura di Grillo e ora si aggrappa strenuamente alla figura di Giuseppe Conte, ultimo collante di un Movimento che altrimenti rischia di disgregarsi.

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Il paradosso

Questo forte carattere personalistico della politica deve fare i conti, però, con un’altra caratteristica tutta italiana: la creazione di alleanze strategiche. In un’Italia che ha visto 66 governi in 75 anni, la creazione di alleanze strategiche è dovuta a problemi sicuramente legislativi. La stessa Costituzione prevede che i parlamentari possano passare da un partito all’altro nel corso di una legislatura. Questo nel corso dei decenni ha consentito ribaltoni e un continuo cambio di equilibri in itinere. Inoltre, ad aggravare la situazione contribuisce anche la legge elettorale: se un partito non ottiene il 51% dei seggi non può governare autonomamente, e deve necessariamente individuare degli alleati. Per questo il M5s stelle passò da un’alleanza con la Lega a un’alleanza col Pd. Ma questa “flessibilità” è anche aiutata proprio dal personalismo della politica italiana di cui prima: se si vota in base al leader e non in base ai programmi politici, allora una forza politica può facilmente adattare il proprio programma sperando di mantenere un consenso abbastanza stabile. Insomma, la retorica in campo elimina ogni tipo di discussione sui contenuti: tu votami, poi vediamo cosa accade in Parlamento. E infatti oggi ci ritroviamo a parlare di attacchi e contrattacchi tra Renzi e Conte, e non di Recovery plan.