La decisione da parte del governance dei principali social network di censurare Donald Trump è un ottimo promemoria: ci ricorda che i principali veicoli d’informazione dei nostri tempi sono privati.
Prima Twitter che sospende l’account di Donald Trump – il presidente in carica degli Stati Uniti – per 12 ore. Poi Facebook ed Instagram che fanno lo stesso, ma per “un tempo illimitato”. Alla fine di nuovo Twitter, che decide di chiudere definitivamente il profilo dell’ormai uscente capo dell’amministrazione Usa. Una decisione che, vista attraverso il filtro degli accadimenti più recenti, è stata accolta da parte dell’opinione pubblica come quasi liberatoria. L’assalto a Capitol Hill, l’atteggiamento ambiguo di Trump, la sua ostinazione a non voler ammettere una sconfitta nonostante tutti i riconteggi dei voti e le decisioni di diverse corti e tribunali stava iniziando a preoccupare. Un atteggiamento inedito, almeno a quel livello: ricorda un pò le vicende politiche di paesi in cui la democrazia sia un concetto astratto, paesi instabili, in cui la prassi e le procedure democratiche ed istituzionali siano deboli.
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E’ evidente la responsabilità di Trump in quello che è successo, ed il fatto che – a questo punto – la transizione con il nuovo presidente sia meglio che avvenga il prima possibile. Troppo tesa la situazione: parliamo sempre di una gigantesca crisi istituzionale di una delle superpotenze mondiali. La volontà di Trump di “avvelenare i pozzi” potrebbe essere superiore al suo rispetto per ruoli e procedure. Tanto è vero che si è parlato subito della possibilità di applicare nei suoi confronti la sanzione prevista dal 25° emendamento, e cioè la rimozione dal suo ruolo. Che però ancora non è stata applicata, nè deliberata. E dunque, al momento, la chiusura dei suoi account è l’unica forma di “sanzione” emessa nei confronti del presidente degli Stati Uniti d’America.
Ecco, descritta così, tutta questa storia mostra l’enorme corto circuito che porta con sè. Perchè la massima autorità politica statunitense, eletta regolarmente quattro anni fa ed ancora in carica, è stata di fatto censurata. Da chi? Da soggetti privati: Facebook ed Instagram appartengono alla Facebook Inc., guidata da Mark Zuckerberg, mentre Twitter è un prodotto della Twitter Inc., presieduta da Jack Dorsey. Aziende private, che lavorano per creare profitto, e che di fatto sono lo strumento principale di divulgazione di notizie esistente al mondo. La comunità dei sostenitori di Trump, ad esempio, si informa moltissimo – statistiche e dati alla mano – sui social. Al netto del giudizio politico su quel che rappresentano e sugli ideali che veicolano, la chiusura degli account social ha di fatto chiuso un canale di comunicazione tra Trump ed il suo elettorato.
Una sanzione enorme, che è stata comminata da, ripetiamo con una certa insistenza, soggetti privati. Aziende. Società per azioni. Che fanno della comunicazione il loro “core business” e che detengono il monopolio del flusso di informazioni sul web. Parliamo di un potere enorme, che in questa circostanza è stato utilizzato con una evidente finalità politica. Era già capitato, se ricordate: alcune emittenti televisive, con la Nbc in testa, avevano interrotto un discorso di Trump in diretta perchè le cose che il presidente americano stava affermando era “in gran parte, assolutamente non vero”. Una decisione che aveva destato polemiche, anche in quel caso: altre emittenti, forse più correttamente, avevano continuato a trasmettere l’intervento di Trump, avvertendo gli spettatori con sottotitoli ed infografiche che non c’era alcuna prova riapetto all’attendibilità di quel che veniva detto.
Interventi di gradazione diversa che però si erano limitate ad un determinato episodio. Le stesse emittenti che avevano deciso di censurare o comunque evidenziare la poca attendibilità di quelle affermazioni avevano poi continuato, nei giorni successivi, a dare spazio e parola a Trump. Nel caso dei social invece la sanzione è totale: una censura decisa in modo arbitrario e, lo ripetiamo, senza che nessuna autorità pubblica nel frattempo fosse intervenuta in questo senso. Il mestiere di chi fa informazione, sopratutto politica, è quello di verificare e confutare quel che viene detto dai personaggi pubblici. Il candidato, o presidente, o senatore di turno dice una balla? Il giornalista lo ascolta, lo incalza, lo smaschera. Ecco perchè il giornalismo è il “cane da guardia della democrazia”. Nei social non funziona così: il peso di un post è sempre superiore a quello dei commenti che eventualmente lo confutano. Ecco perchè, paradossalmente, la censura è l’unico modo possibile di “moderare” un personaggio pubblico di quella portata su Facebook o su Twitter.
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Ma è esattamente per questo che Facebook, Twitter ed i social network sono il posto più sbagliato dove fare comunicazione politica. Eppure, anche in Italia, tutti ormai usano quei canali: l’esempio più calzante sono le conferenze stampa di Conte: quanti di voi le seguono sui social? Ecco, sappiate che, se per qualche motivo un giorno la società che possiede Facebook decide che quella conferenza stampa viola qualche suo e privato parametro, voi non avrete più la possibilità di seguirla. E questa non sembra la “democrazia del web”: anzi, appare esattamente il suo contrario.