Prosegue lo scontro all’interno del governo, e prosegue su diverse materie. L’ultima decisione riguarda la riapertura delle scuole: gli studenti delle superiori non torneranno al 50% in presenza il 7 gennaio, ma l’11. A deciderlo un difficile consiglio dei ministri. Ma le regioni, intanto, procedono in ordine sparso.
Su diverse materie manca una linea comune all’interno del governo, questo è evidente. La disunione coinvolge anche la scuola, sulla quale si accapigliano i diversi schieramenti interni alla maggioranza: da un lato M5s e Italia viva (che vorrebbero una riapertura delle scuole al 50% dal 7 gennaio), dall’altro il Pd, che invece preme per una maggiore prudenza e per una riapertura il 15 gennaio. Il 29 dicembre era stata pubblicata in Gazzetta ufficiale l’ordinanza del ministro della Salute Speranza che stabiliva il rientro in presenza delle superiori al 50% a partire dal 7 gennaio. Sono seguite le polemiche interne alla maggioranza. Ora la sintesi di questo conflitto ha fatto optare, al termine di un duro consiglio dei ministri, per una riapertura delle scuole superiori al 50% in presenza a partire dall’11 gennaio. Mentre elementari e medie torneranno in classe il 7 gennaio.
Eppure, anche se una sintesi è stata raggiunta all’interno dell’esecutivo (e tra l’altro di respiro molto corto), a molte regioni sembra interessare poco. Raggiunto l’accordo a livello nazionale, resta la questione della frammentarietà amministrativa legata a decisioni indipendenti prese a livello regionale. Un quadro che genera incertezza e confusione, e che lascia le famiglie italiane doppiamente appese a un filo (quello nazionale, appunto, e quello regionale). Fino a poco fa i presidi non hanno saputo come e quando comunicare un’eventuale riapertura delle scuole, tanto che aumentano sempre più petizioni e proteste nelle singole scuole. Irritati anche i prefetti, ma questa volta contro le decisioni dei governatori che, emanando ordinanze indipendenti, contraddicono le proposte di questi ultimi. Arrabbiati anche i sindacati, che parlano di “decisioni estemporanee” del governo. Per questo è necessario fare un passo alla volta, e partire dalle regioni.
Regioni in ordine sparso
A rallentare di molto sulla riapertura delle scuole, Veneto, Friuli-Venezia-Giulia e Marche, che prevedono una chiusura delle scuole superiori in presenza fino al 31 gennaio. A commentare il prolungamento della chiusura, i presidenti di regione. Massimiliano Fedriga, presidente del Fiuli-Venezia-Giulia avrebbe spiegato: “La scuola deve rappresentare una priorità, ma la si tutela se si comincia e si finisce l’anno scolastico in presenza, non se si fanno ‘stop and go’ continui“. D’accordo anche il presidente della regione Veneto Luca Zaia, che commenta: “Non mi sorprende che la ministra Azzolina si batta per la riapertura ma in questo momento non è prudente. La situazione sta degenerando e bisogna rispondere con misure ad hoc“. In un’intervista al Corriere avrebbe specificato: “Io sono un inguaribile ottimista e non ho mai pensato che il futuro della scuola debba dipendere da un collegamento wi-fi. Non riaprire è per certi versi una sconfitta, i ragazzi hanno diritto ad una scuola in presenza che purtroppo garantire“. Ma l’ordinanza del presidente di regione è giustificata da “autorevoli scienziati che segnalano il pericolo di una ripresa dei contagi. Il dipartimento di prevenzione del Veneto ha prodotto un documento che dice che non è il caso di rischiare. Ho preso quella decisione esclusivamente per ragioni sanitarie“. Per quanto riguarda le Marche, la linea sembra esser la stessa già evidenziata da Veneto e Friuli: la didattica a distanza proseguirà al 100% per le scuole secondarie di secondo grado, statali e paritarie, fino al 31 gennaio. Al presidente Francesco Acquaroli spetta il compito di emanare un’ordinanza che ufficializzi la decisione presa sulla riapertura delle scuole.
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In Campania, invece, ancora un’altra variante: le scuole riapriranno l’11 gennaio, ma non quelle superiori. A spiegarlo è direttamente il presidente della regione Campania Vincenzo De Luca, che su Facebook scrive: “In tale data potranno tornare in classe gli alunni della scuola dell’infanzia e delle prime due classi della scuola primaria, esattamente com’era prima della chiusura delle scuole per la pausa natalizia. A partire dal 18 gennaio sarà valutata dal punto di vista epidemiologico generale, la possibilità del ritorno in presenza per l’intera scuola primaria, e successivamente, dal 25 gennaio, per la secondaria di primo e secondo grado“.
Il presidente della Liguria Giovanni Toti, invece, sembra aver deciso per un rientro delle superiori l’11 gennaio, come stabilito dal governo. Per Giovanni Toti “sarebbe insensato mandare a scuola i nostri ragazzi giovedì e venerdì per poi chiudere di nuovo lunedì nel caso dovessimo avere di nuovo parametri negativi“. Una linea rigorosa, ribadita già prima della decisione del Consiglio dei ministri: “Conte ieri ha detto che il 7 gennaio la scuola avrebbe aperto poi il ministro Speranza ci ha convocato per dire che non sappiamo come apriremo e in che regioni, se saremo rossi o arancioni. Di fronte all’incertezza su cosa succederà il 7 e l’8 le scuole in Liguria non apriranno. Mi auguro che il governo si prenda la responsabilità altrimenti farò un’ordinanza, come hanno già fatto altri governatori“.
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Si adeguerà alle linee nazionali anche la Toscana, che però ieri aveva annunciato di esser pronta per un rientro il classe il 7 gennaio. Dopo il dietrofront del governo che posticipa il rientro in classe all’11 gennaio, la regione si adeguerà controvoglia alla linea nazionale. “Saremo minoritari ma siamo convinti che il rapporto con gli insegnanti e tra studenti sia essenziale, quindi, anche complice il fatto che con i dati ce lo possiamo permettere, in Toscana il 7 gennaio si riparte con le scuole secondarie superiori“, aveva annunciato il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani.
Un problema strutturale, non solo emergenziale
Non è certo la prima volta che si assiste a uno scenario di questo tipo. Nel corso degli ultimi mesi di emergenza ci siamo abituati ad osservare gli scontri interni al governo, e anche e soprattutto gli scontri tra governo e regioni. Un fuoco incrociato che, nel pieno di una crisi sanitaria, di certo non giova all’amministrazione dell’emergenza. Il problema vero, al di là della situazione eccezionale, è che lo spazio legislativo per creare questo tipo di diatribe effettivamente esiste. Nel corso dei numerosi contenziosi di questi mesi, spesso è stato necessario l’intervento della magistratura per stabilire non tanto chi avesse ragione, ma chi avesse il potere di decidere cosa. Ciò che manca, insomma, è una chiara spartizione delle materie di competenza. A sua volta, questa situazione è legata alle norme fissate nel titolo V della Costituzione, deputato a regolare il rapporto stato-regioni e riformato nel 2001. Da quel momento – riporta il Post – alla Corte costituzionale sono stati presentati circa 1.800 ricorsi, senza contare i ricorsi che sono stati depositati ai Tar. Forse bisognerebbe partire da qui, per un’analisi costruttiva del caos.