Gli anziani tendono a essere politicamente più compatti nelle proprie richieste alla politica, più organizzate e incisive. I giovani sono frammentati e privi di una reale rappresentanza delle loro istanze. Ma è giusto? La sproporzione tra i due gruppi è netta ed evidente.
L’Italia: un Paese anziano
Innanzitutto c’è da dire che l’Italia è un paese molto anziano: un abitante su 4 rientra nella classe over 65. Secondo l’Istat i nuovi nati sono, invece, sempre meno: «oltre 15 mila in meno rispetto al 2016», mentre «nell’arco di 3 anni (dal 2014 al 2017) le nascite sono diminuite di circa 45 mila unità mentre sono quasi 120 mila in meno rispetto al 2008. La fase di calo della natalità innescata dalla crisi avviatasi nel 2008 sembra quindi aver assunto caratteristiche strutturali». Il calo delle nascite, combinato a una speranza di vita fra le più lunghe al mondo, fa sì che ci siano sempre più anziani e sempre meno giovani. Nel 2012, però, i numeri tra le due classi erano quasi identici. Nel tempo le due tendenze opposte hanno scavato un ampio fossato, tanto che oggi gli anziani sono oltre due milioni in più.
La politica dei pensionati
Dal punto di vista politico c’è una netta separazione: ognuno dei due gruppi tende a salvaguardare i propri interessi. Gli anziani secondo le statistiche Ocs, sono protetti da uno dei sistemi pensionistici più generosi del mondo. Il loro partito è numeroso: soltanto il sindacato di pensionate e pensionati italiani della Cgil conta milioni di iscritti . “Sono pensionati in effetti la maggior maggioranza assoluta degli iscritti alla Cgil e alla Cisl e un quarto di quelli della Uil. In Italia ci sono così tanti pensionati iscritti ai sindacati che il nostro paese domina senza contrasto la FERPA, il sindacato europeo dei pensionati: su 10 milioni di iscritti provenienti da tutto il continente, ben 6 sono italiani”.
La politica dei giovani
Poi ci sono i giovani che sono una generazione che si è impoverita a un ritmo rapidissimo. Secondo i numeri compilati da Istat , essi sembrano persino meno interessati alle questioni politiche. Per esempio il 4-5% dei maggiorenni under 35 parla di politica tutti i giorni, contro valori più che doppi delle persone anziane. Anche la propensione a informarsi di politica cresce con l’età: dal 10 al 17% degli under 35 se ne interessa ogni giorni, mentre il picco viene raggiunto dai 65-74enni con oltre il 40%. Tutti fatti che alla politica italiana, un po’ lungo tutto l’arco parlamentare, non sfuggono, tanto che per esempio una delle principale misure proposte nell’ultima campagna elettorale è stata la cosiddetta “Quota 100”, ovvero in sostanza una riduzione dell’età di uscita dal lavoro e quindi un ulteriore aumento della spesa pensionistica, che già ogni anno costa all’Italia circa 25 miliardi in più rispetto alla media dell’Area Euro per le sole pensioni di vecchiaia.
Lo stato sociale al contrario
La politica italiana chi protegge? E dove vanno i soldi? Il nostro è uno stato sociale al contrario, che estrae soldi dalle fasce più povere della popolazione e le versa a chi gode già di un reddito fisso per tutta la vita che tantissimi giovani non vedranno mai. Non si tratta di un’iperbole, ma di quanto sottolinea l’Istat in un rapporto del 2017 dove si legge che “il sistema di tasse e benefici, associato a bassi livelli di reddito familiare, determina per le fasce più giovani della popolazione un aumento del rischio di povertà: dopo i trasferimenti e il prelievo il rischio di povertà aumenta dal 19,7 al 25,3% per i giovani nella fascia dai 15 ai 24 anni di età e dal 17,9 al 20,2% per quelli dai 25 ai 34 anni”. Senza contare, inoltre, che la maggior parte dei giovani è disoccupata e non ha un reddito fisso.
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Il rischio di povertà
L’intervento pubblico, però, abbatte drasticamente il rischio di povertà delle famiglie anziane, che sono allo stesso tempo le più esposte e le più tutelate, cioè quelle per cui la redistribuzione consegue il maggior effetto. Dopo la redistribuzione, il rischio di povertà fra gli anziani scende al 17,1% per i singoli, in maggioranza vedove, e al 9,9% per le coppie. Al contrario, le coppie giovani, con e senza figli minori, e quelle adulte con minori, dopo l’intervento pubblico risultano più esposte al rischio di povertà, che aumenta in misura contenuta. I giovani singoli e i monogenitori con figli minori sono i meno tutelati dal sistema di welfare: dopo l’intervento pubblico mostrano un rischio di povertà superiore al 30%.
La reazione dei giovani
Di fronte una negligenza politica la risposta dei giovani è stata di due tipi. Chi ha potuto è andato via, tanto che l’emigrazione verso l’estero dei 18-40enni si è impennata, dopo la grande recessione e non più tornata ai livelli precedenti. Parliamo di circa 60mila persone l’anno nel solo 2017, con oltre 150mila diplomati o laureati andati a vivere altrove, nel complesso, nei quattro anni precedenti. Chi resta per parte sua appare spesso sfiduciato, scoraggiato. Un sondaggio Ipsos appena prima delle scorse elezioni europee mostrava che, fra i nati dal 1985 al 1999, meno di metà degli elettori avrebbe sicuramente votato, e oltre il 20% non si sarebbe informato sul programma dei partiti perché “non servono a nulla” o “non è così importante per decidere chi votare”. In una rilevazione dello stesso istituto, condotta nei giorni subito successivi al voto del marzo 2018, il 23% dei nati fra l’82 e il ‘97 si è detto “per niente soddisfatto” e il 33% “poco soddisfatto”. La ragione del voto viene indicata come “perché è il meno peggio” nel 21% dei casi, mentre il 24% delle volte è perché si tratta del “partito che meglio rappresenta i miei valori e la mia ideologia politica”.