Raggiunto – finalmente e in extremis – l’accordo su Brexit tra Unione Europea e Regno Unito. L’accordo regolerà i rapporti commerciali bilaterali a partire dal primo gennaio 2021. Restano alcuni nodi da sciogliere in piccoli negoziati che proseguiranno nelle prossime settimane.
E’ stato raggiunto, finalmente, l’accordo su Brexit tra Unione Europea e Regno Unito. Scansato, quindi, lo spettro di un no deal, che nelle ultime settimane aveva iniziato ad aleggiare seriamente intorno a quello che ora è stato definito dal Financial Times come un “divorzio amichevole“. L’accordo regolerà i rapporti commerciali tra Regno Unito e Europa a partire dal 2021. Restano alcuni nodi da sciogliere attraverso micro-trattative separate, che potranno proseguire anche nelle prossime settimane. Stando a quanto emerso fino ad ora, in base a quanto stabilito nessun dazio sarà applicato allo scambio di merci provenienti dalle due parti. Oltre all’assenza di dazi ai rispettivi confini, l’accordo prevede anche che non ci saranno quote, ovvero limiti alla quantità di merci scambiate. Prosegue, inoltre, la cooperazione in settori come sicurezza, energia e trasporti. Consentito anche un trattamento speciale per le aziende: le aziende britanniche e europee potranno godere di un accesso preferenziale alla controparte (differente e più morbido rispetto alle regole stabilite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio). Eppure, nonostante sia “amichevole”, quello tra Regno Unito e Unione Europea è comunque di un “divorzio”, con tutte le conseguenze che comporta.
Un divorzio nel quale restano anche questioni irrisolte. Tra queste, i servizi finanziari: la City di Londra lascerà il mercato unico dei servizi. Ora le due parti dovranno trovare unilateralmente regole sull’accesso ai rispettivi mercati finanziari. Questo potrebbe creare un sistema meno organico, più frammentato e quindi anche più instabile.
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Cosa cambierà
In primis, l’accordo regolerà i controlli alle frontiere, che verranno effettuati (anche in assenza di dazi) e che potrebbero comportare rallentamenti e costi aggiuntivi per le aziende. Le ricadute più pesanti, inoltre, riguardano la mobilità. Ai cittadini britannici sarà proibito lavorare, studiare, iniziare un’attività o vivere in Unione Europea liberamente. Sarà necessario, per svolgere queste attività sul suolo europeo, richiedere visti per soggiorni superiori a 90 giorni. Dall’altro lato, prevista la fine della libera circolazione degli europei nel territorio britannico. Per il turismo basterà il passaporto, ma la questione si complica per chiunque vorrà stabilirsi più o meno stabilmente oltremanica. Sarà necessario ottenere un visto che viene rilasciato solo nel caso si abbia già un impiego, retribuito almeno 25.600 sterline e a patto di avere un livello di conoscenza dell’inglese B1. Agevolazioni previste per chi ha un dottorato di ricerca. Questo punto si lega a una nuova legge britannica sull’immigrazione, che entrerà in vigore da gennaio e che istituirà un sistema a punti: in base ai punti acquisiti si otterrà il permesso o meno di trasferirsi in Regno Unito. Insomma, la legge renderà più difficile (anche per i cittadini europei) trasferirsi nel territorio britannico. La difficoltà crescente riguarderà soprattutto i lavoratori non qualificati. Previsto, inoltre, lo stop del programma Erasmus+ per il Regno Unito. A tal proposito, però, Boris Johnson ha specificato: il programma Erasmus verrà sostituito dal programma Turing Scheme, che stando alle parole di Johnson dovrebbe consentire agli studenti britannici di trasferirsi nelle migliori università nel mondo.
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Le questioni spinose
L’accordo si era bloccato soprattutto su tre temi di rilevante importanza, alcuni in senso simbolico, altri in senso economico. La prima questione riguarda l’accesso dei pescatori europei alle acque britanniche. Il Regno Unito aveva chiesto una riduzione tra il 60 e l’80% del pesce pescato in acque britanniche da imbarcazioni europee, attraverso un accordo della durata di tre anni. Alla fine la controversia si è risolta con una riduzione del pescato del 25% in un accordo della durata di cinque anni. Stando a quanto emerso fino ad ora, la riduzione dovrà essere applicata in maniera graduale: si parte con un 15% il primo anno, per poi aggiungere un 2,5% per ogni anno successivo al primo (nel 2026 si dovrebbe arrivare alla quota del 25%).
Segue la seconda questione, quella riguardante la concorrenza sleale da parte delle aziende britanniche o europee. Su ciò che viene definito il cosiddetto level playing field le due parti hanno trovato un accordo che riguarda il rispetto di un minimo standard ambientale, sociale e riguardante i diritti dei lavoratori. L’idea è di frenare una eventuale deregolamentazione del Regno Unito, che potrebbe scatenare un meccanismo di concorrenza sleale.
L’accordo prevede la possibilità di intervenire nel caso in cui una delle due parti ritenga che l’altra stia facendo concorrenza sleale. La terza questione riguarda, appunto, il meccanismo di risoluzione delle controversie. Secondo l’accordo stabilito, le misure adottate per stabilire la giusta concorrenza saranno valutate in arbitrato entro 30 giorni dalla loro approvazione.
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Insomma, dopo un negoziato lunghissimo, che recentemente ha visto confrontarsi direttamente Boris Johnson e Ursula von der Leyen, dall’anno prossimo il Regno Unito sarà ufficialmente fuori dall’Unione Europea. Un accordo che viene presentato come un successo dal premier britannico, vittima di un calo di popolarità per la gestione dell’epidemia. E infatti arrivano i primi commenti di Johnson, che non temono di presentare l’accordo raggiunto come recupero della sovranità nazionale e, in definitiva, come una vittoria da parte dei cittadini britannici che in quel famoso referendum hanno espresso una volontà separatista. Bisognerà aspettare per capire se la narrazione di Johnson corrisponde alla realtà, o alla nascita di ulteriori problemi.