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Cronaca

Covid, più decessi nella seconda ondata. Ecco cos’è cambiato

Per cercare di rispondere alla situazione di emergenza che ha colpito gli ospedali durante la prima ondata, sono stati chiamati tanti giovani dottori. Ma che fine hanno fatto?

A questa domanda risponde la Dottoressa Martina Vignani, 27 anni, una dei 24 mila dottori sospesi: «Ora ci ritroviamo in una situazione assurda, molti di noi hanno fatto rinunce e sacrifici importanti». Martina dà voce ai pensieri di tanti suoi colleghi che sono nella sua stessa situazione. Sono i giovani medici specializzandi, gli eroi della prima ondata, che hanno risposto “presente” senza troppe esitazioni. Sono gli eroi impiegati come operatori di tracciamento nelle Unità speciali di continuità assistenziale.

La situazione dei giovani medici specializzandi

Tutto è iniziato lo scorso 22 settembre. Nella prova d’accesso è stata posta una domanda forse sbagliata: una radiografia riproduceva il femore destro invece del sinistro. Ciò ha portato ad una serie di ricorsi al Tar. Questa situazione ha, di conseguenza, lasciato per ben 4 mesi i giovani dottori nel limbo. Gli stessi dovranno aspettare il 12 gennaio, quando inizieranno le attività. Sono loro i medici che per Roberto Speranza, Ministro della Salute, dovrebbero diventare centrali nella campagna vaccinale. «Dopo tanti discorsi sulla necessità di forze fresche  – commenta la Dottoressa Vignani – si richiama gente dalla pensione mentre i giovani vengono tagliati fuori»

Le differenze tra prima e seconda ondata

Questa seconda ondata, come stiamo vedendo, è molto diversa dalla prima. Una prima differenza sta nei numeri. Saltano all’occhio i numeri dei decessi: da febbraio al 31 maggio, i morti furono 33.415. Cifra che oggi è stata superata, se ne contano infatti 33.731. I numeri, purtroppo, continuano a crescere e Matteo Villa, ricercatore dell’ISPI stima che si raggiungeranno i 45 mila circa. Ad aumentare, però, sono anche i contagi. Oggi sono 3,9 milioni (numero di persone realmente infettate) e si potrebbero raggiungere i 4,5 milioni. Il 4 aprile fu raggiunto il picco con 29.010 ricoveri ordinari mentre il 23 novembre si è arrivati a contare 34.697 persone ricoverate contemporaneamente.

Il problema delle terapie intensive

Il 25 novembre con 3.848 pazienti si è sfiorato il picco di ricoveri registrato il 3 aprile con 4.068 pazienti. Altra significativa differenza sta nel fatto che nella prima ondata, dopo tre settimane, vi fu un calo del 48% di ricoveri in terapia intensiva. Nella seconda ondata, invece, dopo tre settimane, si è scesi solo al 26%. Dato positivo, invece, è che mentre nella seconda ondata i casi di positività al Covid raddoppiavano ogni 7/8 giorni, nella prima fase avveniva ogni 2/3 giorni.

Cosa non ha funzionato

Iniziate le vacanze estive, poco prima di Ferragosto, fu lanciato l’allarme: «L’Italia si trova in una situazione epidemiologica di transizione con tendenza ad un progressivo peggioramento. Si rileva la trasmissione diffusa del virus su tutto il territorio nazionale che provoca focolai anche di dimensioni rilevanti». Allarme che però è stato solo parzialmente ascoltato. In quei giorni il Governo si rivolgeva agli italiani non imponendo divieti ma una «forte raccomandazione» a evitare assembramenti, feste.

Quanto accaduto a Bergamo non lo ha dimenticato nessuno. La lunga fila di camion militari che portavano le bare nei cimiteri è una immagine difficile da dimenticare. Luciano Antonacci, medico di base a Roma, quell’attimo lo commenta così: «Vedendo quelle scene, pensavo che se l’ondata fosse arrivata nel Lazio, saremmo stati pronti. – aggiunge – Ce la siamo trovata davanti senza una adeguata fase di addestramento, invece». «I miei primi positivi a settembre mi chiamavano per chiedermi cosa fare, ma io non avevo indicazioni specifiche sui trattamenti. Ci siamo aiutati tra noi medici, condividendo esperienze».

Ed è anche per questo motivo che il 16 marzo, il Comitato Tecnico Scientifico ha sottolineato la necessità di un protocollo unico per l’assistenza domiciliare dei positivi. Solo il 16 novembre è stata pubblicata su richiesta del Ministero della Salute una prima bozza. Passo che è stato fatto quando l’Italia si è fermata per il secondo lockdown. Il tracciamento inizia a scricchiolare, emergono nuove difficoltà.

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Un primo passo indietro

Con il sistema di tracciamento saltato, arrivano anche le prime ammissioni di colpa. Le stesse Regioni dichiarano di avere difficoltà. L’Emilia-Romagna dichiara di riuscire a fare solo il 40% delle inchieste epidemiologiche per capire quali sono stati i contatti del caso positivo. La Liguria il 44% mentre la Lombardia il 53%. Gli stessi esperti ritengono che il tracciamento sia possibile con circa 5 mila casi al giorno, di più diventa difficile se non impossibile. Giovanni Di Perri, infettivologo all’Amedeo di Savoia di Torino afferma: «Il nostro sistema ha una capacità limitata. C’era bisogno di un atteggiamento di prevenzione ossessivo. A un certo punto – conclude – con il consenso delle istituzioni, è invece subentrata la voglia di normalità».

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Quanti ritardi

Suddividere l’Italia in tre zone, rossa, arancione e gialla, è servito sopratutto per far diminuire i contagi nelle aree più critiche. Calabria, Lombardia così come Piemonte e Valle d’Aosta hanno visto scendere i contagi del 74% dal picco. Lazio, Molise, Trento, Veneto e Sardegna hanno registrato un calo del 24%. La suddivisione in zone però è arrivata quando già i contagi erano aumentati considerevolmente. La stessa gestione delle terapie intensive può far pensare ad una sottovalutazione di quello che stava accadendo. Sì, perché a ottobre vi era una disponibilità di posti letto pari a 6.458 (1.963 in meno rispetto ad aprile). Nel corso della prima ondata erano state potenziate, livello che non si è mantenuto durante l’estate poiché vi era la certezza che in caso di necessità, quei letti sarebbero stati attivati all’istante. Solo oggi si è arrivati a contare 8.651 posti letto, potenziamento previsto dal Ministero della Salute. Ci troviamo quindi oggi a pagare tutti questi ritardi, sia nella gestione dei giovani medici specializzandi sia nel potenziamento delle terapie intensive.

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