Le accuse dei pescatori di Mazara alle autorità libiche: “Trattati come se fossimo dei terroristi, umiliazioni su umiliazioni”. La condanna dei famigliari: “Perché dalla Farnesina continuavano a dirci che i nostri ragazzi erano trattati bene?”.
I due pescherecci Antartide e Medinea, con a bordo i 18 pescatori di Mazara del Vallo, sono stati liberati lo scorso 17 dicembre. Ad annunciarlo era stato il premier Giuseppe Conte attraverso un tweet pubblicato dal suo account ufficiale. Scortati dalla fregata Margottini della Marina Militare, impegnata nell’Operazione Nazionale Mare Sicuro, hanno dunque abbandonato le acque territoriali libiche dopo ben 108 giorni di prigionia – perché, come già raccontato dagli stessi pescatori, sono stati costretti a cambiare “quattro carceri, in condizioni sempre più difficili”. Arriveranno nel nostro Paese domenica mattina, e se risulteranno negativi al Covid-19, potranno finalmente riabbracciare le loro famiglie.
“Era successo qualcosa di brutto”
I pescatori mancano da casa, dall’Italia, dal primo settembre: 108 giorni di umiliazioni e violenze, riportano le penne de La Repubblica. Una situazione, questa, visibile ai famigliari dei prigionieri già dalle prime foto arrivate dalla Libia. Marika Calandrino, la moglie di Giacomo Giacalone, il comandante del peschereccio Anna Madre, ha così raccontato: “Già quando era arrivata la prima fotografia dalla Libia dopo il sequestro avevo capito. Mio marito aveva il volto gonfio, un occhio quasi chiuso, e il collo rosso. Quando ci siamo sentiti dopo la liberazione gli ho chiesto subito: ‘Tutto bene?’. E mi ha fatto capire che era successo qualcosa di brutto”.
Mentre Vito Gancitano, il cognato di Bernardo Salvo, ha spiegato: “Fino ad oggi non abbiamo detto nulla, il momento era delicato, ma in quelle immagini si vedono chiaramente il viso gonfio e un braccio nero. Ora vogliamo sapere cos’è successo”.
“Dicevano che i nostri ragazzi erano trattati bene”
“Subivamo continue umiliazioni e violenze psicologiche. Arrivavano nel cuore della notte e ci urlavano: ‘Adesso, vi liberiamo’. E invece ci portavano in un’altra prigione. Quattro ne abbiamo cambiate, i tunisini di più. Solo nell’ultimo mese, ci hanno trasferiti in un palazzo, che era un posto più decente”, ha ricordato Fabio Giacalone.
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Mentre suo padre, Pietro, racconta con amarezza: “L’avevo detto a mio figlio che non dovevano spingersi fin lì, è troppo pericoloso. L’avevo detto la sera prima della partenza. E, poi, mentre erano in viaggio, ho visto sul computer dov’erano arrivati, ho subito chiamato il comandante per metterlo in guardia”. E si domanda: “Perché dalla Farnesina continuavano a dirci che i nostri ragazzi erano trattati bene? Non era vero”.
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Anche le testimonianze di Piero Marrone, il comandante del Medinea, delineano uno stesso terribile, drammatico scenario. “Ce la siamo fatta addosso per lo spavento, pensavamo di non farcela. Dentro quelle celle buie ci hanno trattato come se fossimo dei terroristi, umiliazioni su umiliazioni. Adesso, siamo tanto stanchi e abbiamo solo bisogno di tornare a casa”, spiega. E alla domanda dell’armatore, “Vi facevano mangiare?”, la secca risposta: “Solo un pasto decente abbiamo fatto, la mattina che è arrivato Conte“. Neanche ai vestiti e al sapone avevano diritto nelle carceri libiche: qualche ricambio e qualche saponetta è arrivata ai pescatori italiani solo grazie a qualche altro detenuto, finito lì dentro insieme a loro “per chissà che cosa”.