“Covid-19 and rural landscape: the case of Italy2” è lo studio che invita i governi a scommettere sullo sviluppo delle aree rurali. Dai risultati della ricerca è emerso come nei paesi “intensivi” il Covid si diffonde tre volte di più.
La ricerca “Covid-19 and rural landscape: the case of Italy2”, pubblicata su Landscape and Urban Planning e sulla Working Paper Series della Bce, evidenzia come nei paesaggi a più alta intensità energetica ci si contagia tre volte di più. Dunque, dai risultati della ricerca emerge la necessità che le istituzioni mettano in campo una strategia per trattenere le persone nelle aree a più bassa intensità, offrendo servizi, infrastrutture e agevolando il lavoro a distanza. Tali paesaggi “intensivi” rappresentano il 23% del Paese. “Se il Covid-19 segue i modelli di sviluppo territoriale ed economico e corre di più nelle aree a più alta intensità energetica, politiche differenti che aiutino a rivitalizzare le aree rurali possono aiutare non solo a superare la crisi innescata da Sars Cov 2, ma anche a rendere la popolazione più resiliente in caso di future pandemie”: spiegano gli autori dello studio condotto da Mauro Agnoletti, docente dell’Università di Firenze e presidente del programma della Fao per la tutela del patrimonio agricolo mondiale, Simone Manganelli, capo divisione della ricerca finanziaria alla Banca centrale europea (Bce), e Francesco Piras, ricercatore dell’Ateneo fiorentino.
La ricerca parte dalla mappa dell’Italia, nella quale si evidenziano sia la densità dei contagi sia le differenti aree in cui questi contagi si registrano. “Ed è una mappa che mostra immediatamente quello che è accaduto e sta accadendo nel nostro Paese”: spiega a Il Fatto Quotidiano il professor Mauro Agnoletti. Inoltre, il ministero delle Politiche Alimentari, Agricole e Forestali ha classificato il paesaggio rurale italiano in quattro tipologie distinte: paesaggi rurali urbani e periurbani, paesaggio ad alta, media e bassa intensità. “Analizzando le caratteristiche ambientali, industriali e rurali, nella mappa è evidente la correlazione tra il paesaggio ad alta intensità energetica e il contagio, statisticamente significativa anche tenendo conto delle diverse caratteristiche demografiche, economiche ed ambientali. Il virus non si diffonde secondo limiti amministrativi regionali, ma secondo le caratteristiche territoriali e non è neppure la densità demografica il fattore più determinante. Pur non inficiando il risultato finale, lo studio è stato realizzato senza il dato aggregato dei singoli comuni (c’è quello delle province), di cui ci sarebbe bisogno per questo e altri tipi di analisi”: sottolinea invece Agnoletti.
Nello studio il territorio nazionale è stato diviso in due macro-categorie: quella dei paesaggi intensivi (che comprende sia i paesaggi rurali urbani e periurbani sia quelli ad alta intensità), con in media un numero maggiore di persone infette e quello dei paesaggi non intensivi. L’ago della bilancia, dunque, sembrano essere i diversi modelli di sviluppo e gli input energetici dovuti alle attività industriali e agroindustriali. Un risultato ancora più sorprendente, se si considera che la popolazione delle province a minore consumo energetico è in media più anziana e, secondo le più recenti ricerche mediche, più vulnerabile al virus. Si analizzano diversi scenari, prendendo in considerazione principalmente l’intensità energetica del paesaggio e poi altre variabili. Se nel modello più semplice, quello che prende in considerazione il tipo di paesaggio in base all’intensità energetica (e quindi al modello di sviluppo economico), anche l’aggiunta, nei modelli successivi, di dati demografici, economici e sanitari non sposta più di tanto il primo risultato. Le variabili più significative sono i livelli di inquinamento e disoccupazione: “Le province con livelli più elevati di inquinamento e livelli più bassi di disoccupazione tendono ad essere maggiormente colpite dal Covid-19”.
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Secondo Agnoletti, bisogna quindi porsi l’obiettivo di “rivitalizzare le aree rurali, magari anche attraverso le risorse messe a disposizione dal Recovery Fund e dalle politiche agricole”. In questo senso, occorre produrre quei servizi che attraggano le persone o che spingano quelle che ci sono già a non andar via. “Dai servizi sanitari, assistenziali ed educativi alla tecnologia e alle connessioni Internet, in modo che possano, per esempio, lavorare da remoto. Ripensare a diversi modelli di sviluppo, perché certi modelli intensivi sono applicabili in determinate aree, ma non certo in tutto il resto del Paese per il quale, però, occorre un’alternativa”: aggiunge Agnoletti. Difatti nelle aree dove regna il modello ad alta intensità energetica la media è di 286 casi ogni 100 chilometri quadrati, contro una media nazionale di 145 casi, mentre nelle zone meno industrializzate e dove resistono sistemi di agricoltura più tradizionale i casi sono 108 ogni 100 chilometri quadrati.
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Gli autori dello studio sottolineano inoltre come sia necessario scommettere sullo sviluppo delle aree rurali: “Aiutare gli agricoltori in queste aree contribuirebbe a ridurre il rischio idrogeologico e la perdita di fertilità dovuta all’abbandono delle pratiche agricole tradizionali” e “favorirebbe risorse alimentari sostenibili di qualità, uno degli asset più importanti dell’economia rurale italiana”. Un tema legato a quello delle azioni da mettere in campo per aiutare l’economia italiana a uscire dalla grave recessione innescata dalla pandemia. In particolar modo, in un’analisi costi-benefici, secondo gli autori della ricerca dovrebbero essere prese in considerazione “le politiche volte a riportare le persone nelle aree rurali”. L’obiettivo dovrebbe essere quello di “identificare le opportunità basate sulle risorse specifiche uniche di queste aree, piuttosto che cercare di farle funzionare allo stesso modo delle regioni industrializzate”.