Un blitz sul caporalato in Sicilia è terminato con l’arresto di 11 pakistani. Trattavano i braccianti come veri e propri schiavi. Uno, che si era ribellato, a giugno era stato ucciso.
I Carabinieri, su richiesta della Procura di Caltanissetta, hanno eseguito un’ordinanza restrittiva emessa dal Gip nei confronti di undici caporali pakistani. Il blitz denominato “Attila” ha permesso alle forze dell’ordine di mettere il freno alle operazioni di una associazione a delinquere che sfruttava un gran numero di connazionali nei campi. I braccianti venivano trattati come veri e propri schiavi. Maltrattati e pagati una miseria. Uno di loro, che aveva minacciato di denunciare i capi del sistema alle autorità, era stato ucciso a giugno scorso. I fatti sono venuti alla luce dopo che alcuni pakistani della provincia si sono rivolti alle forze dell’ordine.
Il sistema illegale del caporalato
I braccianti lavoravano nella provincia di Caltanissetta, con turni disumani, per paghe misere. Circa 25 o 30 euro al giorno. I caporali “agendo con metodo paramafioso, hanno assoggettato la comunità di appartenenza sottoponendola ad un regime di vessazione e terrore e sfruttandola professionalmente al fine di assicurare all’associazione continuità nel tempo“. A testimonianza di ciò le forze dell’ordine siciliane hanno rinvenuto in casa di uno dei pakistani due libri mastri, adesso al vaglio della Procura, che riportavano le generalità dei lavoratori sfruttati e i relativi compensi.
Le indagini dell’operazione “Attila” hanno avuto inizio a seguito delle denunce delle vittime in diversi paesi, come Milena e Sommatino. I numerosi episodi di violenza denunciati hanno permesso “di acclarare l’esistenza di una vera e propria associazione per delinquere, finalizzata ad imporre la propria egemonia sul territorio, acquisita dal protratto periodo di operatività e rafforzata dal costante ricorso a condotte minatorie e violente di elevatissimo allarme sociale“.
A capo del gruppo c’era Mahammad Shoaib. A reclutare la manodopera, invece, erano Bila Ahmed, Ali Imran, Ali Mohsin e Giada Giarratana. Essi offrivano lavoro ai loro connazionali “in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno, accordandosi sull’entità del compenso, che si aggirava sui 25-30 euro al giorno, e trattenendo per sé una parte o persino la totalità del corrispettivo“. Indagati anche i titolari delle imprese agricole dove i pakistani lavoravano, in quanto “trovavano conveniente rivolgersi ai caporali loro connazionali perché ben consapevoli che nessuna denuncia sarebbe mai potuta intervenire a danneggiarli, proprio per le condizioni di sfruttamento dei lavoratori“.
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Le minacce e vessazioni
Chiunque tentasse di ribellarsi alle metodologie degli schiavisti veniva severamente punito. Minacce di morte e spedizioni punitive. Un nigeriano era stato colpito a sprangate poiché colpevole di avere chiesto la sua paga alla fine del turno. Un altro bracciante, invece, era stato sequestrato e minacciato con un coltello alla gola. I caporali volevano che chiamasse il padre per farsi spedire 5 mila euro al fine di liberarlo. Persino donne e minorenni erano stati aggrediti. A giugno il pakistano Adnan Siddique era stato ucciso per avere denunciato i suoi caporali. La banda di criminali non era nuova a delitti contro la persona ed il patrimonio, commessi a Caltanissetta e in altri paesi della provincia, in larga parte ai danni di loro connazionali.
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Gli undici pakistani sottoposti a misura cautelare dalla Procura di Caltanissetta adesso sono indagati, a vario titolo, per associazione per delinquere finalizzata al caporalato, estorsioni, sequestro di persona, rapine, lesioni aggravate, minacce, violazione di domicilio, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato.