Uno studio clinico su The Lancet Psychiatry affermerebbe che il cannabidiolo (Cbd) potrebbe aiutare a liberarsi dalla dipendenza. Per questo potrebbero aprirsi nuove strade terapeutiche.
IL cannabidiolo (Cbd), una sostanza non psicoattiva contenuta nella cannabis, potrebbe essere d’aiuto proprio a smettere di fumarla e a uscire dalla dipendenza. Lo dimostra uno studio inglese, che vanta di essere il primo sull’uso cannabidiolo contro il disturbo da uso di cannabis. Attualmente non ci sono farmaci contro questo disturbo e la terapia si basa esclusivamente su trattamenti psicologici personali. La ricerca, coordinata dall’Università di Bath, potrebbe aprire nuove strade terapeutiche per quanto potrebbe rappresentare una svolta nel settore. I ricercatori hanno coinvolto 82 pazienti con una diagnosi clinica di dipendenza da cannabis. Gli autori hanno diviso i partecipanti in due gruppi: il primo veniva trattato con il cannabidiolo e il secondo, che si limitava ad assumere un placebo. Il trattamento è stato sottoposto ai pazienti per 4 settimane, seguito da un follow-up di sei mesi, un periodo di controllo necessario per verificare il mantenimento dei risultati ottenuti. Inizialmente i partecipanti hanno ricevuto cannabidiolo in dosi di 200, 400 oppure 800 milligrammi al giorno.
Dopo una prima fase,è stato notato che il dosaggio da 200 mg, non aveva effetti benefici per cui hanno deciso di eliminare questa dose. Dall’analisi è emerso che il principio attivo, assunto in una dose di 400 o 800 mg al giorno, è risultato più efficace per diminuire nel paziente l’uso di cannabis , con una conseguente riduzione dei sintomi da astinenza. In particolare, nei partecipanti che hanno ricevuto il Cbd, il livello di cannabis nelle urine è risultato ridotto e l’astensione alla sostanza si è protratta per molto tempo. Inoltre il cannabidiolo è risultato ben tollerato da tutti e non ci sono state reazioni avverse sul gruppo variegato preso in esame.
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La svolta: l’interpretazione dei risultati
“Lo studio, pubblicato su una rivista prestigiosa come il Lancet Psychiatry, è molto interessante”, ha commentato Guido Mannaioni, membro della Società Italiana di Farmacologia (SIF) e della Società Italiana di Tossicologia (SITOX), non coinvolto nella ricerca. “Per la prima volta, infatti, si identifica un componente all’interno della cannabis – che è un po’ come un ‘minestrone’ di ingredienti, di cui alcuni con effetti potenzialmente anche molto negativi per la salute mentale – in grado di aiutare a combattere la dipendenza”, ha continuato. Il cannabidiolo non è una sostanza psicoattiva e non deve essere confuso con il Thc (tetraidrocannabinolo), il principio psicoattivo principale e più noto, fra i responsabili della dipendenza. Infatti, il Cbd non accende quei meccanismi cerebrali, associati all’instaurarsi di un uso eccessivo e quindi di una futura dipendenza.
“Il Cdb è un principio attivo isolato e in forma pura almeno al 99%, con una minima contaminazione di Thc, che non ha alcun impatto. E non è un caso, che i ricercatori abbiano scelto di testare proprio questa sostanza. Studi precedenti hanno dimostrato che il Cbd può fornire un supporto in un altra dipendenza, quella dal fumo di tabacco, per smettere di fumare”, mentre altre ricerche mettono in luce la potenziale efficacia del Cbd contro sindromi epilettiche gravi nei bambini e nella psicosi”, spiega nello specifico Mannaioni.
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In ogni caso lo studio odierno fornisce risultati preliminari, su un campione limitato di persone, ma la ricerca potrebbe aprire altre vie per nuove terapie. In Europa, peraltro, nell’ultimo decennio la richiesta di trattamenti è aumentata del 76%, secondo quanto riporta lo studio di Lancet Psychiatry. “C’è una necessità crescente di nuove opzioni di trattamento nell’ambito dei disturbi da uso di sostanze”, continua ancora Mannaioni , “dato che attualmente abbiamo pochissime armi per contrastare queste dipendenze, soprattutto fra i giovanissimi e i giovani. E proprio negli adolescenti il consumo giornaliero e eccessivo di cannabis è legato, a livello statistico, a un aumento del rischio di psicosi”, conclude infine.