Un gruppo di esperti ha stimato il rischio di avere nuove pandemie nei prossimi anni: è molto elevato. Il Coronavirus è soltanto uno tra i tanti nemici da combattere.
Gli esperti dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes), l’organismo istituito dalle Nazioni Unite per monitorare la biodiversità e gli ecosistemi, hanno quantificato i rischi di nuove epidemie nei prossimi anni. Esistono, al momento, circa un milione e 700 mila virus in circolazione potenzialmente pericolosi, per la maggior parte che risiedono nei mammiferi e negli uccelli. Non è per nulla anormale ma i problemi nascono nel caso in cui una eventuale mutazione renda possibile il salto della specie. Non è da escludere, dunque, che prossimamente uno o più di essi arrivino all’uomo. Il Coronavirus non è di certo la prima né l’ultima pandemia che il mondo si trova ad affrontare.
Le conseguenze, al momento, sono imprevedibili anche per la scienza. I microrganismi in questione sono infatti quasi nella totalità dei casi sconosciuti agli esperti. Molti di loro sono in luoghi sperduti del pianeta, mentre altri sono più vicini agli essere umani di quanto si pensi. I fenomeni planetari, come il cambiamento climatico e la perdita della biodiversità, inoltre, condizionano il loro sviluppo. Senza dubbio in modo negativo. È per questa ragione che nei prossimi decenni le pandemie saranno più frequenti e letali di quella attuale. Prevenirle sarebbe sicuramente più semplice di curarle.
L’unica soluzione per contrastare con largo anticipo le epidemie, dunque, è l’one health. Esso ha come obiettivo il preservare non soltanto la salute dell’uomo, bensì anche quella degli animali e, in generale, dell’ambiente. Questi tre elementi sono infatti strettamente correlati. Il modello sanitario olistico è stato da tempo adottato e promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma si fa sempre più fatica a metterlo in atto.
Le parole di Umberto Agrimi, direttore del Dipartimento di Sicurezza alimentare, nutrizione e sanità pubblica veterinaria dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) sono emblematiche per comprendere cosa è l’one health e quanto possa essere utile a prevenire le epidemie. Seppure i principi di base su cui si fonda tale concetto siano ormai ben noti da tempo, infatti, coloro che non si occupano di scienza fanno fatica a comprendere nella pratica come la salute dell’ambiente e degli animali possa influenzare quella dell’uomo.
“La tendenza dell’uomo di porsi al di fuori delle dinamiche naturali per osservarle con distacco, nella convinzione di poterle costantemente governare, è presuntuosa: in natura la trasmissione di microrganismi patogeni tra specie diverse non è l’eccezione bensì la regola. Basti pensare che il 70% delle malattie infettive emergenti che hanno colpito la nostra specie negli ultimi vent’anni ha origine animale“, ha spiegato Agrimi.
Il Coronavirus potrebbe esserne l’ennesima dimostrazione, anche se non si conoscono ancora ufficialmente le origini della sua diffusione. “Il protagonista è Sars-CoV-2, un virus di origine selvatica che verosimilmente vive nei pipistrelli. In un certo momento, questo coronavirus è probabilmente transitato per un ospite intermedio fino ad arrivare all’uomo, il quale si è rivelato una specie straordinariamente funzionale alla sua trasmissione su larga scala“.
Il virus insegna inoltre che le conseguenze che i microrganismi hanno sull’essere umano sono imprevedibili. Possono essere totalmente innocui oppure letali. Possono persino essere diverse da persona a persona. Lo stesso può avvenire su altri animali. “Esistono i cosiddetti ospiti ‘serbatoio’ cioè organismi che non risentono per nulla, o quasi, della presenza dell’agente patogeno. Al loro interno esso può sopravvivere e moltiplicarsi, in attesa di infettare altre specie. Per esempio, le salmonellosi sono prive di sintomi nei polli ma possono provocare effetti anche molto gravi nell’uomo“. Lo spiega Antonia Ricci, direttore generale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie.
Nel caso dell’epidemia in atto ciò è evidente. “I pipistrelli non giocano più alcun ruolo nell’epidemiologia della malattia. Il coronavirus responsabile ha fatto il salto di specie, cioè ha modificato il proprio materiale genetico, e ora è in grado di legarsi ai nostri recettori e trasmettersi da uomo a uomo. È però notizia di questi giorni il ritrovamento, in Danimarca, di una variante capace di infettare i visoni, e verso cui la risposta immunitaria nell’uomo potrebbe essere meno efficace, a dimostrazione del fatto che lo ‘spillover inverso’ può sempre avvenire. Non va mai abbassata la guardia nei confronti dei possibili serbatoi animali“. Il salto della specie, inoltre, non è un’esclusiva dei virus. Essi sono i candidati migliori, ma anche i batteri e altri microrganismi vanno tenuti sotto controllo.
Il dott. Umberto Agrimi aggiunge che gli animali a dovere essere tenuti sott’occhio, in questo senso, sono quelli più vicini all’essere umano, ovvero i mammiferi. Essi, come gli uccelli acquatici, solitamente sono dotati di un sistema immunitario che tollera la permanenza dei microrganismi patogeni. Non esistono, tuttavia, regole assolute. “Gli animali che compiono grandi spostamenti e frequentano sia ambienti naturali sia contesti antropizzati sono dei serbatoi efficaci ed efficienti per un agente pandemico“, dice. L’uomo ha lo svantaggio di essere l’ospite ideale dei suddetti agenti pandemici, in quanto, spiega la dott. Antonia Ricci, “vive in vaste comunità e si sposta da un capo all’altro del pianeta in tempi rapidi“. Al contrario degli altri animali, per i quali le epidemie restano solitamente circoscritte.
L’uomo, come abbiamo detto, può in parte prevenire le pandemie tramite l’one health. I microrganismi animali abitano il pianeta fin dall’inizio della sua nascita. La loro capacità di generare pandemia è fortemente condizionata dai comportamenti degli esseri umani. Lo spiega Umberto Agrimi. “Gli ambienti ad elevata biodiversità ospitano la maggiore diversità di agenti potenzialmente patogeni. Piuttosto, sono l’urbanizzazione e la penetrazione della popolazione umana nei contesti selvatici, unita alla crescita demografica, alle condizioni di povertà e alle scadenti condizioni igienico sanitarie a creare il mix che rende alcune aree geografiche degli hot-spot di emersione di nuovi agenti infettivi“, dice.
Gli esperti hanno stimato che prevenire una pandemia cambiando i comportamenti dell’uomo è cento volte più favorevole, sia in termini economici che umanitari, rispetto a contrastarla. “L’approccio attuale – sottolinea Ricci – consiste nel rilevare il prima possibile le nuove malattie e cercare di contenerle finché non vengono sviluppati vaccini o terapie. Si tratta di una strategia rischiosa e pure costosa poiché una volta che è avvenuto il salto di specie è molto più difficile arginare l’agente pandemico“. Piuttosto, la strada deve essere un’altra. “Le zoonosi e i salti di specie ci sono sempre stati e continueranno a verificarsi anche in futuro. Per questo motivo è necessario concentrarci sulla fauna selvatica, andando a mappare sistematicamente, attraverso le nuove tecniche di sequenziamento genomico, gli agenti infettivi ospitati dalle possibili specie serbatoio“, ribadisce Agrimi.
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La rivoluzione del sistema scientifico deve avere inizio dallo studio quei luoghi che sono per natura i migliori hot-spot degli agenti pandemici. I luoghi dove, in sostanza, “si registra la maggiore commistione tra fauna selvatica, animali domestici e uomo“, spiega ancora Ricci. “In molti casi sono paesi con scarse risorse: le ultime pandemie sono partite dall’Asia ma domani potrebbero originarsi in Africa o in Amazzonia. La cooperazione internazionale sarà fondamentale per attrezzare un sistema di sorveglianza globale“. “L’adozione di un approccio ecologico e multidisciplinare – conclude Agrimi – è l’unica possibilità per trovarsi preparati a un fenomeno complesso come una pandemia“.
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