Con la chiusura di bar e ristoranti alle 18:00, il rischio è di istaurare una crisi di settore senza precedenti. Il motivo è evidente: contenere la catena di contagi. Ma che senso ha strozzare un’intera categoria che si era adeguata alle norme anti-Covid, quando il distanziamento sociale non viene rispettato all’interno dei luoghi pubblici, come i mezzi di trasporto?
E’ la domanda che si stanno facendo in molti, da quando il Dpcm del 24 ottobre ha decretato la chiusura di bar e ristoranti alle 18:00. Da quel momento, tante le manifestazioni di dissenso da parte di titolari e dipendenti, tante le proteste in tutta Italia. Il motivo della misura adottata è chiaro: contenere la catena di contagi. Uno scopo legittimo, che presta un’attenzione particolare ai luoghi potenzialmente affollati. Per evitare questo, però, per evitare assembramenti al chiuso, era stato già disposto un protocollo: era possibile consumare solo debitamente distanziati. In questo modo si è tentato – chiedendo un grande sforzo di adeguamento ai ristoratori – di tenere insieme economia e salute. A fronte dell’aumento dei contagi, però, il governo ha deciso di cambiar rotta e di imporre, con il Dpcm del 24 ottobre, nuove limitazioni a un settore già gravemente compromesso dal lockdown precedente. A quel punto, la reazione del settore è stata chiara: ha accettato di chiudere alle 18:00, ma chiedendo aiuti consistenti e immediati (“tu ci chiudi, tu ci paghi”). Come ribadito dal ristoratore Giovanni Favia durante la manifestazione di Bologna: “Non entriamo nel merito delle questioni sanitarie. Diciamo solo una cosa: se tu pensi che dobbiamo esser chiusi, devi permettere di far sopravvivere le nostre aziende”. Finiti i risparmi a cui dare fondo, lo spirito di sacrificio non basta più, soprattutto se si ha l’impressione di star compiendo un sacrificio a vuoto.
Chiusi i ristoranti che si erano adeguati, un sacrificio inutile?
Senza entrare nell’opportunità o meno di chiudere i ristoranti – che richiederebbe ragionamenti complessi sulla modalità di trasmissione del virus – la paura è che un intero settore sia stato sacrificato inutilmente. L’andamento relativamente positivo della curva dei contagi potrebbe essere l’effetto delle misure decise dal governo il 24 ottobre. Anche con la prima ondata è stato necessario aspettare 15-20 giorni prima di poter osservare l’effetto delle misure di contenimento adottate. Ma c’è un’altra ipotesi, più pessimista. Giorgio Parisi, presidente dell’Accademia dei Lincei, fisico di fama mondiale, ha fatto presente in Parlamento: la discesa della curva potrebbe esser legata a un sistema di tracciamento in tilt. Insomma, il virus si diffonde ma sfugge ai monitor.
In attesa del verdetto
Per capire se le misure del Dpcm sono state sufficienti sarà necessario aspettare i dati su morti e terapie intensive almeno della settimana prossima. Rassicura leggermente l’indice Rt, che gode di una certa stabilità. Ma anche su questo punto la partita è ancora tutta da giocare, come ribadito da Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità: “Anche se l’Rt si sta stabilizzando, l’alert sulla soglia superata in alcune Regioni e aree sub-regionali sui posti in terapia intensiva, deve indurre alla massima attenzione. Non siamo in una condizione di regressione del virus”. Conferma anche Walter Bergamaschi, direttore dell’Ats Milano: “L’effetto del calo dell’indice Rt lo vedremo tra circa 20 giorni: se le cose migliorano, negli ospedali l’effetto si sentirà con un ritardo tra una e tre settimane”. Insomma, l’Rt indica un andamento matematico che dovrà trovare riscontro all’interno degli ospedali nelle prossime settimane.
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Il paradosso mezzi pubblici
In sostanza, è ancora difficile stabilire se le misure assunte dal governo stanno sortendo gli effetti sperati. Tanti i pareri degli esperti, tra chi crede che i dati non corrispondano più alla realtà dei fatti e chi crede invece che i primi segnali di ripresa ci siano, e che sia solo necessario attendere ancora. Intanto, però, al netto di tutto, una contraddizione evidente ha sollevato molte polemiche: mentre ai ristoratori si chiedevano sforzi sovraumani, l’Italia continuava ad accettare condizioni potenzialmente pericolosissime per la diffusione del virus. Come il sovraffollamento dei mezzi pubblici. “Stare venti minuti in cento persone in un vagone della metropolitana moltiplica le probabilità di contagio. Si può anche avere la mascherina chirurgica, ma se c’è un super spreader nel vagone che magari la mascherina non la indossa o la indossa male, l’epidemia va nelle case e nelle scuole”, spiega su Repubblica il biologo Enrico Bucci.
I ripetuti appelli
Anche il Comitato tecnico-scientifico della Protezione Civile (Cts) aveva constatato: il trasporto pubblico rappresenta “un’importante criticità”, che “non sembra essersi adeguato alle rinnovate esigenze” in tempo di pandemia. Hanno confermato le impressioni anche i governatori e sindaci locali: Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna, aveva parlato di “flusso che si fa fatica a gestire”; per il sindaco di Bari e presidente dell’ANCI, Antonio De Caro, al momento “le aziende di trasporto non ce la fanno” a gestire la crisi da sole. Procedendo dal comitato tecnico-scientifico alle autorità locali, per approdare all’esperienza diretta, la cantilena sembra sempre la stessa, anche dopo l’imposizione di una capienza massima al 50%: i mezzi di trasporto erano (e in molti casi restano) sovraffollati. Basti guardare la situazione della stazione di Termini.
Cosa è andato storto?
Il Dpcm del 6 novembre avrebbe ridotto la capienza dei mezzi pubblici al 50%, abbassando il precedente limite dell’80%. Il provvedimento è stato preso anche in virtù delle forti polemiche scatenate dalla condizione dei mezzi di trasporto. Eppure, come risulta evidente in video, l’aggiustamento nella normativa non sembra evitare sovraffollamenti. Le cause sarebbero molteplici. Da un lato, la capienza consentita sarebbe ancora troppo alta. Lo conferma anche Luca Tosi, direttore dell’Agenzia del trasporto pubblico locale di Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia, che al Fatto Quotidiano parla addirittura di un 25%: “Per avere il distanziamento di un metro si dovrebbe probabilmente scendere al 25 per cento”.
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Dall’altro lato mancano gli strumenti. Come riportato dalla Repubblica il governo avrebbe stanziato a fine agosto 300 milioni per potenziare i servizi di trasporto. Ma al momento sono solo 120 i milioni spesi. Milioni stanziati per risolvere problemi strutturali, che pagano il contro di anni di drastici tagli. Ma che sono stati resi disponibili con una conferenza unificata solo il 31 agosto, alle soglie della riapertura delle scuole. Troppo tardi. Intanto, però, le scuole chiudono e i ristoranti pure.