Il nuovo Dpcm con le misure anti-Covid sospende i colloqui in presenza con i detenuti: sono già iniziate le proteste dei familiari.
Proteste che potrebbero trasformarsi in rivolte. La situazione dentro e fuori le carceri italiane torna a essere tesa. E il motivo è lo stesso che aveva causato la prima ondata di sommosse durante lo scorso marzo: la sospensione dei colloqui tra detenuti e familiari, questa volta prevista dall’ultimo Dpcm anti-Covid firmato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
A Torino sono già iniziate le proteste, nonostante il Piemonte si trovi in zona rossa. Oggi – martedì 10 novembre – i parenti dei detenuti del carcere Lorusso e Cutugno hanno organizzato un presidio di fronte alla struttura nel quartiere Vallette. I familiari dei detenuti hanno sostenuto di non essere stati informati della sospensione e che, al contrario, gli incontri erano stati confermati. Ora l’obiettivo è di incontrare la direttrice del carcere per ricevere spiegazioni su quanto accaduto.
In bilico è anche la situazione delle carceri della Lombardia. Stando ai dati diffusi lo scorso 7 novembre, le persone risultate positive al coronavirus nei penitenziari erano 156. Di queste 151 sono ospitate nelle strutture interne agli istituti di pena, altre 5 – tra cui alcuni agenti della polizia penitenziaria – sono ricoverate in un ospedale esterno. A questi numeri bisogna sommare altri 510 soggetti a rischio che sono stati isolati.
Tensione anche a Roma, nel carcere di Regina Coeli. Verso la fine di ottobre, per due giorni consecutivi, grida e proteste hanno coinvolto i detenuti della Capitale. Nelle due serate di ribellione i detenuti hanno “battuto” sulle sbarre delle celle con gli utensili da cucina.
I motivi della protesta a Roma non erano stati resi noti, anche se probabilmente si trattava della preoccupazione per la diffusione del contagio in un istituto penitenziario che conta 387 reclusi oltre la capienza, ma anche delle contestazioni per la sospensione dei colloqui. Avvenuta già durante lo scorso marzo, aveva causato dure rivolte in tutta Italia. La situazione era tornata alla normalità solo con l’attivazione degli incontri via Skype e i triage allestiti nei piazzali.
Tra il 7 e il 9 marzo scorso, infatti, alcune violente ribellioni hanno sconvolto 22 carceri disseminate per la penisola. Il bilancio era stato terribile: gravi danni alle strutture, decine di feriti tra carcerati e agenti della polizia penitenziaria, 12 detenuti morti. Le cause ufficiali indicate dai ribelli erano lo stop ai colloqui, la paura del contagio, la richiesta di condizioni migliori, ma più verosimilmente si sarebbe trattato di rivolte coordinate dalle varie organizzazioni criminali per sfruttare l’emergenza e ottenere qualche beneficio. Ad esempio la scarcerazione di alcuni boss mafiosi rinchiusi con il regime carcerario del 41 bis, liberati poco dopo le rivolte.
Per sedare le violente rivolte che periodicamente scoppiano nelle carceri italiane, i detenuti invocano l’indulto – cioè la concessione di remissione totale o parziale della pena – e l’amnistia – cioè la cessazione della condanna e l’estinzione del reato. Questi due strumenti giuridici aiuterebbero a diminuire il sovraffollamento degli istituti penitenziari, vista anche l’emergenza sanitaria.
L’amnistia, infatti, azzererebbe il via vai degli imputati nei Palazzi di Giustizia e soprattutto nei Tribunali nella fase dibattimentale. L’indulto invece sfoltirebbe la popolazione dei penitenziari, che in alcuni luoghi d’Italia raggiunge picchi di sovraffollamento del 200 per cento.
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